La bagnarota, un simbolo e uno stile di vita oramai perduti

di Gianni Saffioti

Hanno collaborato: Barilà Carmela, Scicchitano Grazia, De Biasi Domenica,

Foti Sarina, Stillitano Teresa, Saffioti Gaetana, Iannì Maria Carmela.

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     La bagnarota, nel corso dei secoli è stata narrata e decantata da centinaia di scrittori, poeti, giornalisti che restavano affascinati ed incantati solo a vederla operare sia nel mondo bagnarese che fuori dalle mura cittadine. Pagine bellissime scritte da personaggi autorevoli o da semplici visitatori del nostro paese hanno fatto il giro del mondo, tanto che periodicamente servizi ed articoli sul tema vengono trattati dai grandi mezzi d’informazione. Spesso ahimè, si tratta di rotocalchi di colore sul tema che sfruttano e svuotano la figura della bagnarota e servono esclusivamente per vendere riviste patinate come impone la società di oggi.

     Ultimamente, e raramente anche in passato, mai uno studio serio sull’argomento, solo lavori privi di senso e di logica, senza minimamente pensare all’importanza della figura stessa ed al suo rapporto con la logica territoriale in contesto.

     Intorno al 1986, mi ero illuso che una mano allo sviluppo delle ricerche sulla bagnarota e sul territorio bagnarese in particolare, la potesse dare un noto antropologo francese che si interessava anche della questione, ma come tanti altri, è miseramente scomparso portandosi dietro studi e scoperte, senza tanto ricordarsi le promesse che aveva fatto e gli aiuti che aveva ricevuto. Da questa esperienza è nata l’esigenza di cercare e capire questo mondo che è stato il sale della vita bagnarese che, a mio parere, assume un’importanza fondamentale nella storia della cittadina e a cui mai nessuno ha  dato il giusto rilievo.

     Nelle pagine che seguiranno si potranno leggere, oltre ad alcuni studi da me sviluppati, pagine scritte da altri autori che ritengo importanti, ed ammirare alcune foto che fanno la storia della bagnarota nel 1900. come quelle del periodo neorealista, del fotografo Franco Pinna, che sono state presentata in varie mostre fotografiche internazionali, anche in sud America, ricordando così un grande fotografo e la sua arte. La figura della bagnarota, sin dai tempi antichi, ha segnato in modo indelebile il panorama della vita sociale nella provincia di Reggio Calabria ed oltre.

La società bagnarese, quella sviluppatasi dopo il 1783, l’ha vista protagonista infaticabile dello sviluppo cittadino, dedicare la vita al lavoro spesso molto pesante.

Le donne bagnaresi, rese celebri dai viandanti, dai giornalisti e dagli scrittori, che le hanno osservate lavorare restandone meravigliati, erano belle, forti e coraggiose tanto da essere note al mondo intero.

     Bravissime nel baratto e nel commercio in genere, si distinsero sempre per il loro temperamento nei rapporti con la gente dei paesi dove andavano a vendere o a barattare i loro prodotti.     Prima di esplorare questo mondo femminile, unico nel suo genere, che si è dissolto lentamente all’inizio degli anni settanta, è bene ricordare che le bagnarote sicuramente commerciavano i loro prodotti nei paesi vicini, ancor prima del 1783. Grazie a questo loro peregrinare si salvarono dal terribile sisma che in quell’anno decimò la popolazione bagnarese.

     Rimaste orfane di quasi tutti i loro uomini, non demorsero, e ben presto nel nostro paese il rapporto d’equilibrio tra maschi e femmine si ristabilì. Molti uomini affascinati dalla bellezza e dalla vigoria delle bagnarote, lasciarono i loro paesi dell’entroterra per trasferirsi a Bagnara.

     Dopo quel terremoto, molti cognomi nuovi fecero rinascere la vita sociale della cittadina, mentre altri non vi comparvero più.

     A questo proposito, uno studio accurato dei registri comunali e dei libri dei morti delle congreghe cittadine, potrebbe darci l’esatto ruolo che le bagnarote svolsero nella vicenda, che certamente le ha viste protagoniste di scelte non facili ma fondamentali e decisive per il futuro della cittadina.

Ancora un contributo fondamentale allo sviluppo della cittadina le bagnarote lo diedero in occasione della ricostruzione dopo il terremoto del 1908.

 Furono loro che si adoperarono per giorni e giorni a trasportare anche nei rioni più alti il legname che servì a costruire le baracche provvisorie, che arrivava con le navi fino alla nostra spiaggia.

 Si vedevano ordinate in due file, laboriose come le formiche avanzare lentamente col pesante carico in testa dalla riva del mare e fino alla meta.

Instancabili, dalla mattina alla sera per tutto il periodo della ricostruzione contribuirono alla costruzione di migliaia di baracche, trasportando sulla loro testa innumerevoli tonnellate di legname.

  A metà del 1800, il Cardone distingue le donne di Bagnara in tre diversi ceti. Quello civile, dove le donne erano istruite ed abili ricamatrici. Quelle di ceto medio, che filavano e lavoravano la maglia. Quelle del basso ceto, che si occupavano dei lavori più umili e pesanti. Da queste ultime, manco a dirlo, è poi nato il mito della bagnarota.

     Vari erano gli impieghi in cui esse si adoperavano. Alcune dedite al commercio partivano all’alba con i loro prodotti dentro le gerle o cannistri, e precedute sempre da una di loro che andava in avanscoperta raggiungevano i paesi dell’entroterra. Grande era la loro abilità di portare in equilibrio sulla testa le loro gerle, rendendosi libere le mani in modo da poter affrontare qualsiasi tipo di sentiero senza doversi fermare o rallentare. Usavano interporre, fra la testa e l’oggetto da trasportare, una corona di stoffa in modo da alleviare la pressione del peso. La cosiddetta curuna, era intrecciata in modo da non potersi disfare ed era simile in ogni dettaglio a quelle che si possono ammirare sulle teste delle bellissime Cariatidi al museo del Partenone di Atene, o nelle loro perfette copie, osservando il portico delle Cariatidi sempre in cima all’acropoli ateniese.

     Spesso, dovendo attraversare zone impervie e sedi di malavitosi, stavano all’erta pronte a difendersi se molestate. In genere, conosciute e stimate in tutti i territori da loro frequentati, venivano sempre accolte con il massimo rispetto.

Commerciavano pesce, frutta, prodotti artigianali, stoffe ed altri prodotti che arrivavano coi bastimenti dall’oriente o coi buzzetti dalla Sicilia. Portavano in paese in gran parte prodotti di prima necessità come patate, legumi, cereali, olive, ecc.

     I castagneti dei boschi subito dietro le prime colline del paese, oltre a dare lavoro agli uomini che tagliavano e curavano il legno, richiedevano la manodopera delle donne per il trasporto del legname fino ai depositi dove era preparato per essere in seguito imbarcato sui bastimenti e spedito.

     Questo lavoro era veramente duro e richiedeva numerosi viaggi giornalieri di tre e più chilometri, con un peso di circa settanta chili da portare sulla testa. A vederle, tanto erano veloci che sembravano quasi non toccare i tortuosi sentieri delle ripide colline che portano in paese.

     In questo lavoro, come in altri di cui dopo parlerò, esse non erano considerate a dovere, e spesso per fare qualche viaggio in più si accontentavano di paghe più basse venendo in lotta tra di loro. Questi conflitti, tutti a favore del padrone del legname, finivano con veri litigi dopo i quali nè le donne nè le rispettive famiglie si scambiavano più il saluto. L’inimicizia durava fino a quando un lutto o un lieto evento interessava una delle famiglie in questione, ed allora era doverosa la visita e quindi la riconciliazione. Nei casi più gravi le inimicizie duravano per intere generazioni venendo meno all’antico e profondo patrimonio di ogni cultura che è il rispetto della morte.

     Un vero e proprio caporalato cui erano soggette le bagnarote si instaurava quando bisognava caricare i bastimenti. Esse, che lavoravano alla giornata ed in base al numero di viaggi che facevano con il legname in testa dalla spiaggia al bastimento, mediante delle passerelle, venivano scelte per conoscenza e per simpatia.

Il caporale a suo piacimento faceva lavorare l’una più che l’altra in conformità a quanto poteva risparmiare. Le più deboli, spesso senza ne figli e ne marito perchè lontani, o vedove, erano maltrattate ed in alcuni casi anche picchiate. Per esigenze economiche erano costrette a lavorare più delle altre venendo sottopagate e subendo le più brutte umiliazioni.

Altri esempi come quello già citato li troviamo durante i viaggi che la mattina presto o la notte esse facevano per trasportare i sacchi di sabbia dalla spiaggia al luogo dove serviva per costruire case od altro.

      Come possiamo notare, le bagnarote, così decantate dai forestieri e tanto rispettate fuori dal paese, nel lavoro cittadino da loro praticato, non sempre erano trattate per il meglio.

     Più morbido era il rapporto con il padrone quando invece si trattava di trasportare l’uva per la vendemmia. Si vedevano scendere lungo le colline con i cofina pieni d’uva in testa fino ad arrivare ai “parmenti” cittadini. Uno, due, tre, dieci viaggi, e così fino alla fine della vendemmia si vedevano salire e scendere lungo i sentieri, le strettoie, attraverso i ponti rudimentali sui ruscelli. Formavano una serpentina variopinta che si muoveva ritmicamente con lo stesso passo veloce e leggero, senza mai riposarsi fino alla meta, ed il guadagno non era certamente adeguato alla fatica fatta. Più laborioso ancora era il trasporto del mosto che avveniva grazie all’ otre che esse si procuravano di anno in anno e preparavano prima lavandolo in mare con l’acqua salata e poi con quella dolce, partendo dalla carcassa di una capra che si prenotavano dai macellai poco prima dell’inizio della vendemmia.

 Ancora più arduo e complicato era il trasporto dell’uva in paese dai vigneti situati lungo la costiera. A causa dell’impraticabilità del territorio, furono costruite delle lunghe scalinate che arrivavano direttamente al mare, dove con una palamatara si trasportavano le bagnarote con i cofina pieni di uva sulla spiaggia per poi lasciarle proseguire come consuetudine.

Il lavoro che esse cominciavano con la vendemmia e che vedeva come protagonista l’uva, finiva quando, nel mese di novembre il vino era pronto e bisognava venderlo. Si usava fino agli anni 60 “vandiari u vinu”, ovvero ogni cantina o produttore mandava di strada in strada delle persone capaci a reclamizzare il proprio vino “ vandiandulu”. Tra le più capaci ricordiamo Mela a nurca che reclamizzava il vino di Carmina a Nurata cosi: “ A cu voli vinu bonu  a la utti mi vaci n’da Nurata. A cu prova torna. “

     Uno dei mestieri più fotografati dai reporter d’epoca è stato quello del trasporto del pescespada dalla spiaggia fino allo spaccio o alla stazione ferroviaria da dove poi venivano spediti. Intorno agli anni cinquanta lungo il percorso che dalla spiaggia portava alla stazione ferroviaria esse erano seguite da uno o più fotografi che le immortalavano con numerosi scatti e che poi le fecero conoscere al mondo intero. Sotto certi aspetti dietro questo largo consumo di foto delle bagnarote col pescespada in testa, lentamente fuori dalla cittadina la si cominciò ad identificare solo come portatrice del pescespada dimenticandosi di tutti gli altri lavori che svolgeva. Uno in particolare per esempio di cui non si è mai parlato era quello della lavorazione e distribuzione del luppolo (u luppinu), per la quale era molto conosciuta nei paesi vicini tanto che a Palmi su questo tema gli hanno persino dedicato una bellissima canzone.

     Dopo aver adagiato il grosso pesce su una tavola, spesso lo spada superava il quintale di peso, due uomini lo sollevavano poggiandolo sulla testa di una portatrice che, protetta dalla curuna si incamminava, scalza come tutte le altre bagnarote, velocemente per la via più breve verso la destinazione prefissata.

Bagnarote caricano un bastimento mentre delle signorine benestanti prendono il sole.

        Una vera specializzazione era quella delle lavandaie che facevano il bucato a mano per le varie famiglie benestanti. Ogni sei mesi, in pratica al cambio di stagione, esse venivano chiamate a lavare tutto il vestiario stagionale sporco. Esse lo trasportavano a hiumara  e dopo aver preparato uno o più grandi fagotti riempiendo dei lenzuoli con i panni da lavare, lo immergevano a tempo dentro grandi contenitori di acqua bollente e cenere, che a quei tempi sostituiva il detersivo, e poi lo lavoravano con olio di gomito fino a farlo diventare bianco. Poi lo sciacquavano nell’acqua pulita dello Sfalassà e lo stendevano al sole in modo da non fare pieghe. Alla fine lo consegnavano pulito stirato e profumato.

 Un trattamento molto particolare avveniva anche per la lana che arrivava dai paesi dell’interno, dopo molto lavoro di pazienza essa diventava bianca e pronta ed essere lavorata.

Ma lo Sfalassà era la lavanderia di tutti in tutti i giorni dell’anno e li nelle ore più impensabili si vedevano donne curvate a lavare i panni quotidiani di tutta la famiglia. Nei ritagli di tempo utile post lavorativo si ricavavano degli spazi per affrontare ancora un lavoro utile per la famiglia, raccolti i panni sporchi andavano al fiume a lavarli, spesso in coro intonavano canzoni che le distraevano e le distoglievano dai tristi pensieri quotidiani di miseria e sopravvivenza. Cantavano si ma per sfogarsi e non certo per la contentezza di dover tornare dopo qualche ora a lavorare duramente fino a tardi per poter avere qualcosa da mangiare il giorno dopo.

    Il treno fu il primo mezzo di locomozione di cui esse si servirono per viaggiare. Si vedevano la mattina alla stazione che aspettavano il locale per andare nei paesi vicini a vendere il pesce ed altri prodotti. Erano la disperazione dei capitreno e dei conduttori, i quali faticavano a far pagare loro i biglietti. Era consuetudine che quattro o cinque donne pagassero solo uno o due biglietti coi quali secondo loro avevano il diritto di viaggiare tutte.

   Tutti questi mestieri, avevano come denominatore comune la classe e l’eleganza delle bagnarote, infaticabili camminatrici. Avanzavano dritte e sicure senza scomporsi muovendo solamente i fianchi lasciando in pratica il busto fermo: sembravano immobili ma percorrevano chilometri.

     Episodi particolari le vedono sfruttare l’arguzia e l’ingegno per contrabbandare il sale ed il tabacco da Messina e fino in Calabria senza pagare il dazio, durante l’epoca fascista. Per sfuggire alle perquisizioni doganali, quando la nave attraccava a Villa S. Giovanni, giravano intorno ai carri in manovra in modo da eludere la sorveglianza. Nascondevano i sigari nelle pieghe delle loro ampie saie. Il sale lo mimetizzavano sotto il classico vestito in modo che nessuno potesse mettere loro le mani addosso. Arrivati al treno che le conduceva a Bagnara, nascondevano la merce sotto i sedili degli altri passeggeri, rendendoli involontariamente complici e mostrandosi una volta tanto compiacenti ai controlli. Quando venivano scoperte, impiantavano lì una di quelle liti che facevano stancare la più paziente delle guardie.

     Tornate in paese esse rifornivano di sale i forni ed anche le case comuni. Guadagnavano poco o niente ed il rischio corso e le perdite subite non erano mai ripagate a dovere.

Ridicola fu un’ordinanza fascista che le obbligava a portare le scarpe dentro le stazioni ferroviarie.

Per loro era normalissimo camminare scalze in qualsiasi luogo, sia perchè non potevano permettersi di consumare tante scarpe, sia perché così erano abituate.

     Altri lavori tipici della bagnarote che si svolgevano all’interno delle mura cittadine erano quelli del trasporto delle sporte che costruivano in casa e che dovevano poi essere portate nelle varie segherie.

     Questo lavoro, in pratica gratuito, veniva alla fine di un processo di lavorazione delle fasce legnose che interi nuclei familiari praticavano fino alla fine degli anni sessanta descritto in altro capitolo.

     Ancora un esempio dell’impegno delle infaticabili femmine di Bagnara viene dal tiraggio delle reti al ritorno delle palamatare dalla pesca. Esse sono là, soprattutto a Marinella, a dare una mano agli uomini ed insieme con loro pescare a strascico con le gradi reti, tirandole dalla riva del mare.

Uno sprazzo di predominanza della bagnarota sul maschio, ma solo perchè è stata così abituata, lo si nota ancor oggi quando i pescatori scaricano i pescespada dalla passarella sulla spiaggia, dove c’è pronto il rigattiere per comprarli. Mentre il marito, dopo una giornata di pesca, sta di lato, è la moglie che con decisione tratta col compratore. Capita spesso di vedere contrattare il pesce due donne, una che cerca di comprare a buon prezzo e l’altra che valorizza il pescato in modo da guadagnare di più. Spesso per poche lire l’affare va a monte perchè nessuna delle due vuole essere beffata negli affari, in particolare modo da un’altra donna.

     Tutto quello fin qui narrato ha una sua fine naturale nei primi anni settanta, quando si sviluppa il processo di trasformazione della società.

     Le automobili, che prima erano solo un miraggio, divennero realtà anche per i ceti più bassi. La plastica divenne indispensabile soppiantando i contenitori di legname artigianali.

     La progressiva evoluzione delle nuove tecnologie ha sconfitto l’operosità delle bagnarote che velocemente si sono viste sopraffare dai veloci mezzi di trasporto di gran lunga più capienti delle loro gerle. Il non adeguarsi al nuovo mondo, allontanò Bagnara dalla vita produttiva con gravissimi danni per l’economia cittadina, elevando in maniera sconsiderata la percentuale di emigrazione delle famiglie bagnaresi verso il nord. Ma questo è un problema di notevoli dimensioni che interessa tutto il meridione e che merita ben più ampie considerazioni.

Sembra quasi impossibile che le bagnarote abbiano dato così tanto allo sviluppo del paese. Ed anche se il tempo passa in fretta, è bene fermarsi a riflettere sul ruolo molto importante che hanno avuto all’interno della famiglia, dove spesso gestivano l’economia insieme col marito.

    Vendite, compere, decisioni importanti, la bagnarota era sempre lì a discutere, a tirare sul prezzo per guadagnarsi la giornata, per garantirsi a “muzzicata i pani”.

     Sono molto lontano dal definire la società bagnarese di tipo matriarcale, e tanto meno mi pongo il problema di creare l’ennesimo stereotipo come tantissimi hanno già fatto e faranno in futuro solo per creare il solito articolo di colore senza mai dare a questa figura il ruolo importante e centrale che si è conquistato con gran fatica nella storia di Bagnara.

Tra i tanti che hanno descritto le bagnarote nei loro libri ed articoli, sinceramente molto pochi hanno colto in pieno l’aspetto vero ed importante del loro mondo. I più, si sono solo interessati di creare un simbolo, uno stereotipo col quale elaborare scritti poco precisi e pretestuosi, spesso equivocanti e denigratori per le donne stesse e la società locale tutta.

     Negli anni cinquanta Graves, confondendo Ionio e Tirreno, associa le bagnarote alle antiche società matriarcali greche che si formarono nella Locride da loro conquistata. Egli trasferisce Bagnara vicino alle rovine di Locri e scrive che mentre le donne erano in giro a vendere i prodotti e vi restavano parecchi giorni, erano gli uomini ad accudire la casa ed i bambini. Niente di più falso, le bagnarote prima del tramonto facevano sempre ritorno a casa e prestavano tutta la loro attenzione ai figli ed alle faccende domestiche.

     Molto interessante, imparziale e corretto è invece un articolo di Luigi Parpagliuolo del 1930, che tratta appunto delle donne bagnaresi, scritto per una rivista mensile del touring Club del giugno di quello stesso anno.

    E’ spiacevole come in certi casi, leggendo riviste rinomate, si scoprono articoli che sono letteralmente costruiti con la fantasia, partendo semplicemente da poche ed arruffate notizie carpite qua e là.

     Questo non ha mai giovato a Bagnara, che si ritrova ancor oggi a difendersi da accuse strumentali, dettate dall’ignoranza e dalla presunzione altrui, come ad esempio che gli uomini non hanno mai lavorato e che erano e sono le donne a mantenere la famiglia. Niente di più sbagliato.  Non basta leggere due o tre articoli per farsi una cultura di un luogo o di un fenomeno culturale.  Bisogna essere presenti nel luogo, indagare, raccogliere informazioni e svilupparne i contenuti. Solo in questo modo sarà possibile sfatare il cattivo e fantasioso mito della bagnarota, costruito dai media in particolar modo negli ultimi decenni. Si potrà così dare finalmente ad essa il giusto e dovuto ruolo di figura socialmente emancipata, come lo era tutta la società bagnarese fino alla fine degli anni sessanta.

      Ecco cosa ci narra il Parpagliolo.

     “ Dalle forme giunoniche, statuarie, alte, diritte, vestite di cotonina semplicemente ma pulitissime, forti ed energiche, queste donne rappresentano la parte più viva e direi più utile della popolazione bagnarese. Il piccolo commercio è nelle loro mani, ed in esso sono avvedutissime e infaticabili. La stazione ferroviaria è ogni mattina e con tutti i tempi popolata di queste donne, che pazientemente accoccolate per terra accanto alle loro gerle cariche di frutta, di verdure, di stoviglie, attendono i treni che dovranno trasportarle nei paesi della riviera, donde ritorneranno nel pomeriggio. Altre son lì accanto ai vagoni merci, pronte a scaricarli; e per pochi soldi portano sulla testa pesantissimi colli, sacchi di farina, materiali da costruzione, casse di petrolio. Ed eccole diritte, col busto eretto, procedere con passo misurato, quasi ritmico in fila indiana, a inerpicarsi per salite faticose senza mai fermarsi, sino alla meta. E sempre pronte ad assumere altri lavori del genere; di guisa che a   Bagnara non si costruisce una strada, non si fabbrica, non si fa uno sgombero, non si caricano di legname i velieri che vengono dall’Oriente, senza che queste donne portentose non siano assoldate.

     Ma fra esse ce ne sono anche di più infaticabili ed audaci, e son quelle dedicate al piccolo commercio coi paesi di montagna, dove non giunge il treno e talvolta neppure la strada carrozzabile. E si vedono alle due di notte, cariche di pesantissime ceste, partire, piova o faccia sereno, verso Santa Eufemia di Aspromonte, Sinopoli, Delianova, Cosoleto, Scido, Santa Cristina, paesi ben lontani a decine di chilometri da Bagnara. Appena vi giungono, vendono, barattano, si caricano di altre merci, di quelle che può dare la montagna, e ripartono; ed eccole al ritorno nel pomeriggio fresche e liete come se ritornassero da una passeggiata. Si potrebbe, dopo ciò, supporre che esse, nell’indipendenza in cui vivono siano cattive madri. E’ invece il contrario, salvo le eccezioni che si riscontrano in ogni comunità. Esse rientrano nelle proprie case, dove gli uomini, che esercitano il mestiere di sarto, calzolaio, di fabbro, ed i figliuoli, spesso numerosi, le attendono. Ed è allora che comincia per esse un altro lavoro, quello di rassettare la casa che, per quanto poveramente arredata, è pulitissima, e di provvedere alla cucina.

Bagnarote al porto di Villa S. Giovanni, al rientro da Messina.

  Queste donne, le bagnarote, sono conosciute in tutta la provincia di Reggio e nei paesi limitrofi di quella di Catanzaro, e rappresentano un tipo specialissimo, che si trova solo a Bagnara: a pochi chilometri di qua e di là, a Scilla come a Seminara, le donne sono del tipo comune, di quelle sedentarie, che tessono, filano, badano alla prole e non hanno l’avvenenza delle bagnarote.  Alle quali sembra che il movimento all’aria aperta, lo sforzo fisico, la responsabilità degli affari sviluppino le forme e illuminino il volto di vivace bellezza.

     Il che fu notato da molti scrittori, dal Mazzarella, dal Nicolosi, dal Fiore, dall’Amato: – “Castrum Balneariae, (scrisse quest’ultimo) locupletatum hominibus, sed maxime que puellis vultus amenitate decoratis“

      Luigi Parpagliolo

     Tratto da: Le vie d’Italia n.6 del giugno 1930 da p. 455 a p. 463.

       A conclusione di queste brevi descrizioni della figura della bagnarota, che lentamente si è dissolta dagli anni sessanta in poi e che praticamente oggi non esiste più, vorrei smussare ancora qualche angolo e riflettere del perchè di così tanto interesse per il lavoro delle donne di Bagnara da parte di tanti scrittori, viaggiatori, pittori, ecc., ed invece essi stessi poco interesse hanno prestato alle migliaia di braccianti agricole del resto della Calabria, che pure con il proprio lavoro contribuivano anch’esse all’economia familiare.

      Ci tengo in modo particole a smussare questo spigolo, molto insidioso, per due motivi: il primo perchè sembra quasi, quando si parla delle bagnarote, di denigrare le donne degli altri paesi, come spesso ho potuto constatare in dibattiti e conferenze e purtroppo anche in televisione. Il secondo punto è quello che va più di moda e cioè che le bagnarote lavoravano e mantenevano tutta la famiglia compreso il marito.

 Per chiarire il primo punto bisogna analizzare la collocazione geografica della cittadina. Essa si viene a trovare tra una corda di alte colline che scendono dall’Aspromonte ed il mare aperto, senza alcuna via di comunicazione pianeggiante con nessun altro paese che produca prodotti diversi da poter barattare. Bagnara, geograficamente è un’isola a sè, forma un contesto atipico lontano e difficoltoso da raggiungere fino a qualche decennio fa. Bisognava dunque, per non isolarsi e soprattutto per una questione di sopravvivenza, provvedere a rifornirsi dei prodotti mancanti.

     Non essendoci grandi strade di comunicazione ne tanto meno mezzi attrezzati per percorrere i ripidi sentieri che portavano fuori del paese ed essendoci invece tanta povertà e bisogno di lavorare, ecco spuntare la figura della bagnarota, conosciuta da secoli in tutto il territorio della provincia, che ha provveduto a colmare le deficienze alimentari del paese.

     Spesso i ricordi che esse hanno lasciato in giro per i paesi non sono tutti positivi; ma la gente dimenticandosi delle mille volte in cui il sacrificio di queste donne portava fino a casa le merci che a Bagnara arrivavano con i bastimenti dall’oriente, dimenticando che mangiavano il pesce solo se queste donne percorrevano chilometri per portarlo, ricorda solo i rari episodi in cui a torto o a ragione litigavano. Ultimamente, e mi riferisco agli anni cinquanta e sessanta, quando arrivavano nei paesi a vendere il pesce, le chiamavano “i pisciari”, termine dispregiativo che poi si affermò anche a Bagnara, e non più per indicare le venditrici di pesci, ma per ingiuriare una persona sboccata.

      Purtroppo la gente dimentica facilmente il bene e ricorda benissimo il male, e così per le bagnarote che per secoli hanno portato nei paesi più lontani le mercanzie più svariate, adesso che non c’è più bisogno di loro, le si ricorda come venditrici di pesci, sboccate e maleducate, appunto “pisciari”.

     Ecco quindi svelato il motivo di così tanto interesse per le bagnarote da parte del forestiero colto: erano le uniche che in tempi da noi molto lontani si spostavano in massa verso altri luoghi a lavorare, ed il loro lavoro era un lavoro atipico per le donne perchè‚ pieno di responsabilità e di pericoli, ma che solo loro potevano fare perchè gli uomini facevano lavori più faticosi, come quello di pescare, di coltivare la terra, di costruire le case, di tagliare i boschi. Il secondo punto da chiarire, riguarda il rapporto che oggi si fa fra le bagnarote e le altre lavoratrici dei paesi dell’interno.

     Spesso, quando si interviene per spiegare la diversità della bagnarota, volutamente o meno, si crea di essa quasi un mito, una leggenda e si finisce col definirla superiore alle altre donne. Ho assistito personalmente a dibattiti e discussioni in cui ciò accadeva, ed ho visto con i miei occhi delle video registrazioni di trasmissioni televisive, anche di reti nazionali dove, a tale grande imposizione, chi non conosce l’argomento reagisce in modo istintivo e si posiziona in maniera negativa, sminuendo il fenomeno della bagnarota e facendo risaltare il lavoro delle altre lavoratrici.

      La colpa di tale confusione è dovuta al fatto che un’atipicità come quella della bagnarota non è mai stata valorizzata per ciò che essa è realmente stata, ma viene ancor oggi sfruttata e manipolata in malo modo per creare le solite cose di colore senza mai approfondire l’argomento in maniera seria ed adeguata.

     Ecco quindi che ci troviamo oggi in una situazione in cui i paesi che fino a qualche decennio fa erano piccoli e poco sviluppati, oggi sono quasi tutti grossi centri ben sviluppati ed hanno di gran lunga superato Bagnara, sia economicamente sia culturalmente. Mentre Bagnara, da grosso centro rinomato, motore di tutto il commercio con l’entroterra, nonchè meta ambita di tanta gente, oggi purtroppo vive piangendo se stessa, rivangando un glorioso passato che non viene utilizzato per il meglio, anzi!

     Alla bagnarota, il più alto riconoscimento di gratitudine per quanto ha fatto e per quanto poco ha avuto.

G.S.

“Bagnarotazza, fimmina ‘rresciuta, simenza d’a Calabria fort’e sana…”

“Bagnarota, donna realizzata, seme della Calabria forte e sana…”

di Vincenzo Spinoso

  Così Vincenzo Spinoso, artista calabrese scomparso prematuramente dalle scene della poesia dialettale, descrive l’operosa femmina di Bagnara, conosciuta coll’ormai famoso appellativo di “Bagnarota”. Ma pochi versi non possono rendere giustizia al fascino e al mistero che la donna di Bagnara racchiude in sé. Da sempre, la sua figura è stata associata a quella di lavoratrice instancabile, bravissima nel baratto e nel commercio pratica che le permetteva di mostrare il suo temperamento ribelle e deciso nei rapporti con la gente. Le attività commerciali di queste donne, come si è soliti dire, perdono le loro tracce nelle notti dei tempi: si pensa infatti che smerciassero ogni genere di mercanzia ancor prima che il terremoto del 1783 mettesse in ginocchio la popolazione di Bagnara. Ma fu proprio grazie a loro, alla loro bellezza dura e rugosa, forte e dolce allo stesso tempo, che molti uomini si trasferirono dall’entro terra al mare. Il ricordo più bello e sicuramente più commovente che rimane impresso nella mente degli abitanti di Bagnara è la similitudine, il buffo accostamento tra queste donne così volitive e una fila di laboriose formiche, che portano sul loro capo carichi di merce depositata in miseri cesti di vimini. Ma è proprio in questo, quando le si vedeva affondare i piedi scalzi – per loro era uno spreco comprare un paio di scarpe per lavorare – nelle terre brulle dell’Aspromonte, quando con la più schietta semplicità contrattavano sul prezzo della merce che tanto faticosamente portavano sul capo, che le donne di Bagnara sono diverse dalle altre. Sono mamme, mogli, casalinghe e lavoratrici allo stesso tempo, hanno sempre saputo conciliare tutto e nel modo migliore. Un episodio che è rimasto impresso nelle pagine di storia di Bagnara è il loro commercio “intrallazzistico” o ancor meglio contrabbando del sale al tempo del governo fascista. Pur di non pagare il dazio, nascondevano la merce fra le pieghe delle loro larghe gonne, il rinomato “saio”, e una volta arrivate sul treno, poiché la loro attività interessava principalmente la Calabria e Messina, sistemavano i piccoli pacchetti sotto i sedili rendendo complici anche i passeggeri. Ma se da un lato la Bagnarota è osannata per la sua forza d’animo, è ricordata per le vesti che le fasciavano il corpo dalle forme giunoniche e statuarie, per la “curuna” – un cuscinetto di stoffa che metteva sul capo – che in un certo senso doveva alleggerire il pesante fardello, dall’altro è criticata, attaccata per i suoi modi. Le sue urla per la vendita del pesce, i suoi atteggiamenti fin troppo sicuri hanno fatto sì che queste donne instancabili venissero etichettate come “sboccate”. Ma dietro ad ogni viaggio, a ogni commercio si nasconde anche per la Bagnarota il desiderio di evasione, che è anche bisogno di vita. La donna di Bagnara rappresenta una parte di storia molto importante, quella vera e quella vissuta e per lei non si può esigere altro che il rispetto massimo, poiché ha conosciuto come esperienza quotidiana il lavoro che stanca, logora, sfinisce.

Fatica

Di Vincenzo Spinoso

Tratto dal quindicinale “ Sfalassà” Del 15 agosto 1949

     Con passo pesante e fermo, una donna viene avanti lungo il sentiero pietroso, accordando la propria all’andatura sonnolenta della mula che si tira indietro. Sul capo porta in bilico un cesto colmo delle regalie che i nostri poveri recano ai ricchi come doveroso voto a piccoli iddii.

     Non ha trent’anni; ma il suo corpo ha conosciuto troppe fatiche per imbellettarsi ancora di giovinezza, troppe maternità per ricordare la grazia femminea.

     E va, scalza, sotto il solleone accecante; di tratto in tratto poggia una mano sull’accentuato turgore del ventre, come per un riaffiorare di tenerezza.

     E va, con il passo fermo e pesante delle creature che, nell’abbandono, sanno solo di dover servire l’iddio implacabile della fatica senza mercede.

LO SPUNTO

      La similitudine virgiliana tra gli uomini di Enea che, nell’ ansia di lasciare l’ Africa, depredano i boschi e spingono in mare le loro navi e le formiche che pensose dell’inverno, si precipitano fuori dalla loro tana alla ricerca del necessario, non perderebbe la sua intima bellezza, se accoppiata alla quotidiana fatica delle operose femmi­ne di Bagnara, le ormai celebri Bagnarote che, chiuse nel loro ca­ratteristico costume, si spingono al di là del pugno di colline che rinserra le loro case, al di là della provincia, al di là della regione, nella ricerca del pane pei loro figli, uomini senza lavoro.

Migrantes cernas totaque ex urbe ruentes

      E basta sostare all’ alba sul piazzale della nostra stazione, per vederle arrivare da ogni strada, da ogni vicolo, da ogni sentiero, portanti in bilico sul capo le ceste caratteristiche, ricolme della ro­ba, che anche qui assume la valenza tragica verghiana, e che è la fonte dei loro commerci, ora leciti ora illeciti; dei loro guadagni, ora grandi ora meschini. E di qua partono nelle due direzioni. Opposte per sventagliarsi da ogni stazione, fin nelle contrade lonta­ne, irraggiungibili. E in borgate, in paesi, in città restano inconfon­dibili, con la parlata viva, pronta, sonora; per il passo lungo e l’in­cedere, quasi ieratico; per i costumi che fasciano i corpi dai li­neamenti forti, un po’ duri, un po’ patiti, ma segnati dai più puri canoni della femminilità. Intorno a queste femmine, al loro lavoro è fiorita una letteratu­ra, in certo senso stupida, in quanto tende a mettere in evidenza i lati cattivi e amorali di esse, facendole apparire come creature im­possibili. La causa di ciò va ricercata innegabilmente in quel guar­darle, vederle, giudicarle quando, in lotta contro tutto e contro tutti, per la difesa della roba, che è pane per i tanti della loro casa, sono portate ad assumere atteggiamenti di lotta, che fanno dimenticare tutto ciò che è segno di educazione. Ignorandole, di contro, quando nelle loro case vivono la loro vita di madri, di donne che può trasfigurarle agli occhi di un osservatore obiettivo. Neghiamo che la loro invadenza rumorosa, la loro spregiudicatezza, la loro rozzezza siano qualità innate. Emergono in esse questi valori nega­tivi perchè una lotta è aperta e, di fronte alla legge della foresta, queste creature si fanno tigri per non soccombere. Considerazioni superficiali fanno risalire al fenomeno intrallazzistico l’ intraprendenza commerciale delle forti e volitive donne di Bagnara. Per af­ferrare i motivi veri basta considerare, nella sostanza sociale e psi­cologica, ciò che è stato il lavoro di queste donne prima e ciò che è divenuto dopo che il progresso dei trasporti e le crisi commerciali le spodestassero miseramente, le immiserissero. E’ innegabile che la guerra, potente generatrice di ricchezze e di miserie, di spregiudicatezza e di eroismi, ha contribuito ad allarga­re, a rendere a volte antiumana questa migrazione quotidiana. Ma in verità è sempre esistito fra le nostre donne quel bisogno di eva­sione, che è anche bisogno di vita: ieri, verso i centri vicini, portate dalle loro gambe robuste, verso le rovinose strade d’ Aspromonte; oggi, in numero grande su tutti i possibili e impossibili mezzi di lo­comozione, per le vie del meridione tutto ed oltre. Queste donne te­naci, anche quando dimenticano i limiti della convenienza e del ri­spetto, amiamo immedesimarle alla tragica terra ballerina sulla quale abbiamo la nostra casa, sotto la quale riposano i nostri morti: terra che frana, travolge, rovina, ma, al di sopra di ogni distruzione, afferma la vita nel trionfo di un fiore, il più semplice. E noi, che conosciamo le bellezze e le brutture della loro vita di faticatrici, non possiamo, nonostante tutto, non ammirarle; non possiamo non esigere per esse il rispetto massimo di chi conosce come esperienza quotidiana il lavoro che stanca, logora, sfinisce.

L’APPUNTO

     Conoscevo già tante opere poetiche di Spinoso, grazie alle trasmissioni radiofoniche che, per circa un decennio, Radio Perla del Tirreno gli ha dedicato e grazie anche alla tenacia del maestro Domenico Surace, e di cui oggi rimangono le cassette archiviate.

Ho anche letto qualcosa di Spinoso in passato, e parlato con tante persone che lo hanno conosciuto. Quelle stesse cose che sto leggendo adesso, e mi riferisco al diario del luglio ottobre 1943, le avevo semplicemente sentite raccontare da molte altre persone da me intervistate. Ma scritto così, che uno sembra viverci dentro, mi ha dato un‘emozione che da tanto che non provavo.

Conoscevo, per sentito parlare, della biblioteca fornitissima della sua casa e di come egli divorava qualsiasi tipo di libro che gli interessava. Mi vengono ancor oggi in mente i versi delle sue poesie recitate dal maestro Domenico Surace o da Mimmo Villari, ma questo diario per l’intensità emotiva e la volontà di superare gli ostacoli che il suo fisico sempre più malandato gli imponeva, è per me la conferma di quanto quelli che lo conoscevano bene mi hanno sempre detto: un uomo molto sensibile sia culturalmente sia umanamente.

     Alla fine del diario sono pubblicate due prose, la prima dedicata alla Bagnarota e sulla quale voglio soffermarmi a parlare per tutta una serie di motivi.

Un primo motivo esclusivamente letterario è lo straordinario paragone che egli fa della roba che le bagnarote trasportavano, con quella della novella rusticana di Giovanni Verga, appunto “La roba”.Mazzarò, il protagonista di questa novella, è un eroe etico, “l’eroe di una virtù oramai fatta religione: la roba è idoleggiata non come roba, ma per il travaglio che è costata; col sole, coll’acqua, col vento; senza scarpe ai piedi, e senza uno straccio di cappotto”. “Quella roba è stata fatta con tutte le sue mani, con lo spasimo ed il batticuore, con una fatica diuturna dall’alba al tramonto, sotto la pioggia e sotto il sole”.

     Quale accostamento mai fu più azzeccato per evidenziare il verismo e la forte simbiosi di valenza che ha nella questione meridionale anche in chiave letteraria la nostra bagnarota?

Il proseguo della novella non è altro che tutta una serie di conferme e di sintonie che trovo, rileggendo il mio scritto di dieci anni fa, sullo stesso argomento.

     Sono felicissimo che Vincenzo Spinoso nel 1949, quando scrisse questa prosa, la scrisse in modo inequivocabilmente chiaro da far trasparire quello che è uno dei volti veri della bagnarota. Penso che se avesse continuato a scrivere  avrebbe potuto ampliare il vuoto che ancor oggi c’è intorno a questa figura.

Insomma Spinoso è un grande anche come scrutatore della società bagnarese.

                         G.S.

Trascrivo questo brano, convinto che la storia narrata non sia vera ma frutto di racconti o leggende narrate all’autore da terze persone. Conoscendo il carattere ed il temperamento delle bagnarote, credo difficile, quasi impossibile che esse accondiscendessero a certi ricatti.

CONTRABBANDO

di Sascia Villari

Il mare sembra un lago tranquillo, la sera, quando è circondato dalla corona di luci delle coste che quasi si congiungono all’imbocco dello Stretto. La nave-traghetto va e viene, scivola lentamente, scossa dal fremito uguale e persistente delle macchine, e si lascia dietro una lunga e bassa scia di fumo che si allarga sempre più fino a diventare un velo di nuvola. Le donne siedono in circolo sui sacchi coprendoli con le loro vesti lunghe ed ampie, in un angolo buio, tra le file dei carri che la nave ha imbarcato, e seguono sonnolente il fruscio dell’acqua lungo i fianchi della nave, la fascia di schiuma che essa si lascia dietro. Vanno e vengono anche loro, finché la notte le disperde ognuna verso il proprio paese.

– Non dormire, Grazia, – dice una.

– Lasciami in pace: ci porti scarogna con la tua paura.

Vanno e vengono le donne, occhi scuri e profondi, grandi piedi nudi e screpolati.

– Parla piano, megera.

– Se Dio vuole, qui non ci disturba nessuno.

– A mare lo butterei questo sale, se penso ai quattro soldi che ci guadagno.

– E chi ti prega di venire?

– Fa’come me: risparmia sul biglietto.

La grande ombra della nave bassa e piatta scorre lentamente sul mare: le donne spiano attraverso le ruote dei carri, trascinando i loro sacchi da un angolo buio ad un altro angolo buio e si parlano con brevi gesti, con la luce negli occhi ed il bianco del volto che appare all’improvviso.

– Che tartaruga è questa nave! Bruno passa la notte ad aspettarmi.

– Anche in questo ci troverei gusto. E almeno varrebbe a qualcosa questa fatica. Per me è arrivato il tempo delle pedate. Grazia sorride.

– E’ l’estate che ti fa venire questa smania? – chiese un’altra.

Anche se il mare non fa un’onda o un’increspatura, la nave ora comincia a dondolare lievemente perché incontra le correnti dello Stretto, e l’orizzonte sale e scende come un’altalena.

-E Caterina che fine ha fatto?

-Si prende il fresco in prigione.

-Con una lingua così lunga, non so come ha fatto a non andarci già da un pezzo.

Portano calze di lana che vanno dalla caviglia fin sotto il ginocchio, lasciando scoperti i piedi forti e affaticati. Gira il fuso sospeso nell’aria come un grosso ragno che allunga il suo filo e le punte delle dita si muovono come ad un tempo di musica.

-Al primo figlio ti faccio un corpetto di lana.

-Aspetta a pensarci che prima sia sposata.

-Col sale che porti, non ci metti niente a farti la dote e ridono insieme.

– lo non ci penso mai, – dice Grazia tanto, pensandoci non si risolve niente.

Ora le mani riposano sul grembo e la donna cerca nel volto di Grazia, bello e allegro, un ricordo della propria giovinezza. Le costellazioni si inseguono sulla nave e il Faro accarezza ad intervalli la superficie dell’acqua con un rapido fascio di luce.

E allora la punta di una scarpa tocca il sacco su cui una donna è seduta e si accende una lampadina tascabile e una voce d’uomo scompiglia il gruppo.

– Che portate?

– Gesù e Maria! M’avete spaventato.

-Fammi vedere questo sacco.

-E’ sale per la mia casa.

-Ah, sì? E voialtre su che cosa state facendo l’uovo?

-E’ la prima volta. Ne fate passare tante.

-Donne della malora! Avete impestato la Sicilia.

– Per una volta che l’abbiamo fatto.

-Bella faccia. Rubate allo Stato dalla mattina alla sera.

-Quattro soldi di sale, signorino. E’ una fatica per niente.

-Vorrei vederteli in tasca, se sono quattro soldi.

-Sulla vita dei miei figli.

-Ne parliamo allo sbarco.

La lampadina si accende e le fruga nel viso, sui fianchi, sulle gambe. Si ferma più a lungo su Grazia e le fa gli occhi abbaglianti.

– Ve la caverete con poco, se ci rimetterete tutto quello che avete guadagnato in un anno.

– Lasciate che lo buttiamo in mare, per una volta che ci è capitato di portarlo, – implorano.

– Sarebbe comodo, sarebbe fatica per nulla. Vale per tutte le volte che l’avete passata liscia.

L’uomo si siede in mezzo a loro.

– A momenti ci siamo, – dice. – Sarei a letto a quest’ora, se non fosse per voi.

Brilla il fuoco di una sigaretta e si riflette sul lucido cuoio nero della fondina.

– E chi non paga, stanotte se la mangiano le cimici, – aggiunge volgendo lo sguardo attorno. – Non volete capirlo che ormai è finito il bel tempo? Con la guerra, per amore o per forza si chiudevano tutt’e due gli occhi.

Una si mette a singhiozzare.

– Hai voglia di fare la commedia.

– Ma come volete che paghiamo, se non abbiamo denaro?

La lampadina si solleva di nuovo e Grazia chiude gli occhi e gira il volto.

– E finitela!

– Quanto ci vuole per arrivare?

” Vai piano “, pensano le donne ” vai piano, Madonna mia “.

– Per i nostri figli lo facciamo. Con tutto il rispetto, anche vostra madre lo avrebbe fatto per voi.

-E allora non c’è differenza fra una troia e una donna onesta?

Oneste siamo, signorino. Ma come facciamo se non abbiamo denaro? In prigione dobbiamo andare?

L’uomo si accarezza i piccoli baffi neri e inghiotte saliva.

-Bene, – dice – venite a parlare col comandante.

-E dov’è il comandante? Quella che piangeva ora si asciuga le lacrime.

-Forse qualcosa con lui si può fare?

Non c’importa del sale, possiamo buttarlo. – Due donne si alzano insieme.

– No, – dice l’uomo. – Basta che venga una.

Allora la più anziana respira profondamente e accenna un sorriso:

-Grazia, vai tu a parlare col comandante.

-Io? E perché?

-E che ti pare, che non devi andarci lo stesso se ti portano in prigione?

Le donne tornano a sedersi. Solo Grazia rimane in piedi.

– E muoviti allora, che gli dico io una buona parola se vieni con me.

– Vai, vai, – dicono le donne, e nascondono anche il suo sacco sotto le loro vesti.

Va bene, – dice la ragazza, e si allontana con lui. E appena a due passi, le mette una mano sulla spalla e poi scende e le fruga nel petto.

– Bella, le dice, parlandole con la bocca sull’orecchio. E lei si addossa con le spalle ad una parete e gli si offre.

– Venite, – gli dice, – mettiamoci qui.

Il porto non dev’essere lontano, perché ora la sirena della nave fa sentire il suo urlo.

” Vai piano “, pensano le donne ” vai piano, Madonna mia “.

SASCIA V1LLARI

L’importanza di come affrontare uno studio serio sulla Bagnarota.

     Il tema della bagnarota è affascinante e complesso per vari motivi.   A chi vuole inoltrarsi in questo mondo in modo facile e spassionato, consiglio l’argomento “La bagnarota, un simbolo, uno stile di vita.” Per chi invece vorrebbe tentare la strada impervia di uno studio ponderato, cercherò di indicare un percorso logico di ragionamento su cui cominciare a porre le basi dello studio senza cadere, come fanno in molti, su episodi forvianti o particolari insignificanti. Strada che non invento io ma che altri come il Cardone, punto di riferimento per chi vuole ragionare su Bagnara e non subire invece una storia preconcetta, hanno usato con successo.

      La prima domanda da porsi è la seguente: Cos’ è la Bagnarota.

     Conseguentement : Quando nasce la Bagnarota.

     Ed infine: Perché nasce la Bagnarota.

    Cercherò di sviluppare, in maniera elementare, una mia logica di ragionamento su come affrontare il problema senza perdersi per strada, sintetizzando concetti semplici ed intuibili anche se all’inizio sembreranno banali.

     Se si segue la logica sino alla fine, allora il cerchio si chiude ed il discorso torna a compiersi. Non si apprenderà niente di nuovo, tranne qualche nozione storica, ma si imparerà a ragionare con la propria testa; da studente, evitando la prosopopea nociva di chi si sente professore. In sintesi, è meglio, anche se più difficile, cercarsi una strada propria che percorrere gli errori degli altri; e tutti sbagliamo!

     La bagnarota ha avuto modo di esistere perché esiste Bagnara. Questa affermazione sembra scontata ed insignificante. Infatti lo stesso in teoria lo si potrebbe dire per le abitanti e le città di ogni parte del mondo. Però non è così. Il termine bagnarota ed il suo significato in particolare sono strettamente legati al luogo (Bagnara) più di ogni altro paragone possibile.

In altre parole, quando si dice “bagnarota” si capisce di cosa si sta parlando. Mentre se si parla di altre donne di altri luoghi per capire bisogna scendere in casi e in situazioni precise. Per esempio se si parla delle donne di Melissa si sa che si parla di quelle donne che morirono ammazzate insieme ai loro uomini per difendere le terre che avevano occupato. Quando invece si dice “bagnarota” la mente va dritta non ad una figura femminile, ma ad un mondo ed una società che vivevano ed operavano quasi esclusivamente in funzione di questa figura.

     Oggi il mondo è cambiato, dopo la seconda guerra mondiale la società dove essa viveva, ed aveva un ruolo attivo e di primaria importanza, non esiste più. Lentamente ma inesorabilmente, la società evolvendosi ha dato a questa figura un ruolo sempre meno significativo, tanto che da decenni, cioè da quando il motore a scoppio si è imposto nella nostra società, la bagnarota non esiste più.

     Il sostituto naturale della bagnarota è stato il motore a scoppio, quello che permette alle macchine di correre e di arrivare prima.

    Come una volta esisteva il campanaro che puntuale tirava le pesanti corde per suonare le campane, oggi, grazie alla tecnologia, le campane si suonano pigiando un tasto del telecomando grazie all’elettronica, che ci permette di programmarle e di avviare il loro suono anche a chilometri di distanza, quando noi lo decidiamo.

     La tecnologia, il progresso, le macchine in genere hanno sostituito il lavoro degli uomini e delle donne, specie quello pesante. E’ naturale che in un mondo così fatto (quello bagnarese), dopo secoli di vita dove trasporti e commercio erano in mano alle bagnarote ecco che, al loro venir meno si capisce e si sviluppa l’importanza che hanno avuto nel contesto sociale della nostra cittadina. E non per degli avvenimenti particolari o episodi sporadici, ma per la costanza ed integrità del loro impegno secolare a far evolvere una cittadina come Bagnara, accettando e tramandando un ruolo pesante e difficile da sostenere, che solo l’esigenza e la difficoltà di un paese tagliato fuori dal mondo, senza vie di comunicazioni transitabili da carri o bestiame, poteva avere.

     E’ tutto questo vi sembra poco? Non merita uno studio serio ed opinato?

     La bagnarota è stata l’elemento che ha ovviato a tutto ciò. La bagnarota è stata l’anima ed il motore di una Bagnara che per secoli ha primeggiato in provincia ed oltre. La bagnarota è stata l’artefice, forse un poco anche “maliziosa” della rinascita di Bagnara dopo il terremoto del 1783, quando il nostro paese perse quasi tutti gli uomini adulti. Questo argomento, di enorme importanza, è ancora da sviluppare e portare integralmente alla luce.

      La Bagnarota è stata simbolo di Bagnara e non per scherzo. Simbolo più volte deriso per incompetenza ed ignoranza di chi lo ha sfruttato, lo sfrutta ancor oggi e lo sfrutterà domani per fini non proprio nobili. Mai nessuno gli ha dato una storia degna del suo impegno e della sua importanza. Solo sfruttamento come merce culturale. E’ vergognoso come “la nostra storia venga oggi così trattata”, non un briciolo di ritegno e tutti a pontificare senza avere mai contribuito allo sviluppo dell’ argomento. Sempre prendere, mai dare.

     Un insieme di situazioni dettate dalla posizione geografica della nostra città, e parliamo di Bagnara centro, hanno fatto di questo luogo per secoli l’ottava delle isole Eolie, sia per linguaggio, che per usi e costumi, lontana dal resto del mondo.

     L’unica strada percorribile a cavallo o con mulo era quella ancor oggi esistente, anche se adesso molto più stretta perché abbandonata, che risale lo Sfalassà e che conduce a Solano, alla vecchia strada romana. Quella era la via di comunicazione principale di Bagnara, quella che probabilmente percorsero Ruggero I e Roberto il Guiscardo.

      Per la società bagnarese, sola e destinata all’autodistruzione. L’alternativa è arrivata grazie alle bagnarote che per secoli si sostituirono a qualsiasi mezzo di locomozione e comunicazione.

     E’ su questi concetti, partendo da basi di conoscenza solidi e precisi, che si può cominciare a fare un discorso compiuto sulla bagnarota, l’unica vera bagnarota, il resto è pura stravaganza di gente che scrive senza conoscere Bagnara. Perché la bagnarota è stata Bagnara e viceversa, e poco importa di episodi che possono estraniare il discorso e magari strumentalizzarlo a dovere. Sul lato strettamente storico la bagnarota è stata questo. Se poi si vuol continuare a parlare di storie marginali e condire articoli ad effetto scrivendo cose assurde in contesti molto marginali, beh, allora chiamatela in un altro modo ma non bagnarota. La bagnarota è stata una cosa seria, non un episodio su cui fare poesia.

     E’ facile insistere testardamente a proseguire sugli stessi errori, più difficile è capire l’importanza del tema e di quello che potrà essere uno sviluppo importante, fatto di ricerche, documentazione, interviste, studio e sudore. Già! Perché sudare?

 

Post Author: Gianni Saffioti