Uno sguardo alla costiera

 

Uno sguardo alla costiera

di Gianni Saffioti

 

Non un solo centimetro del territorio costiero che da Bagnara porta a Palmi, è oggi coltivato.

Per tutta la sua estensione, circa sei chilometri, solo terreni aridi ed abbandonati, colmi d’arbusti altissimi e spinosi che prepotentemente si sono sostituiti al dolce Zibibbo dorato che qui era coltivato fino a qualche decennio fa.

Le uniche zone ancora produttive sono quelle raggiungibili con l’automobile. Esse si trovano  vicine alla strada statale adiacente l’abitato di Ceramida.

Se da località Madonna delle Nevi, ci s’affaccia su cala Iancuia, s’assiste ad uno spettacolo meraviglioso di rasole che sembrano danzare con millimetrica maestria sul terreno a loro disposizione. Anfiteatri di muri a secco scendono ritmicamente verso il mare, collegati fra di loro da strette scalinate magistralmente costruite ai fianchi della montagna resa coltivabile.

Purtroppo tutto questo è stato abbandonato. Niente più è prodotto. Le rasole, lentamente lavorate dal sole, dalla pioggia ed il vento, si stanno rovinando.

I vigneti che fino a metà di questo secolo venivano in parte lavorati, oltre allo Zibibbo, producevano anche altri tipi d’uva che era venduta fuori regione per poi diventare vino da taglio.

Nei tempi che furono, per ovviare al trasporto dell’uva, si costruì un palmento sulla spiaggia di cala Iancuia, del quale oggi rimangono solo poche mura sparse.

Spesso, quando l’uva era trasportata nei parmenti cittadini, prendeva la via del mare. Raccolta dentro grandi contenitori di fasce legnose detti cofina, l’uva veniva portata fin sul luogo più idoneo per il caricamento sulle barche che s’accostavano al monte. A tale scopo in alcune zone della costiera furono scavati sulla roccia una serie di scalini in modo da arrivare fino al mare. Quando l’imbarcazione non si poteva avvicinare molto alla roccia per le difficoltà del mare o del territorio, questi cofina capaci di settanta chili circa, erano lanciati da due tre metri d’altezza fin sopra la barca.

Spesso s’assisteva alla perdita dell’intero contenitore, accompagnata dalle imprecazione dei contadini stessi.

Come, quando e perché l’uomo trasformò queste terre ripide ed aride in magnifiche terrazze, gli studiosi ancora non l’hanno scoperto. Certamente le rasole nacquero anche per dare un poco di ricchezza a chi le lavorava. Nello stesso tempo adornarono queste zone rendendole visivamente spettacolari donandole  un incantesimo produttivo che le rese popolate per tantissimi secoli.

Per costruire su una pendenza media del 45%, con terrazze larghe circa 1,70 ed alte 2,50, quindi in numero di circa 60 per ettaro su uno sviluppo lineare di sei chilometri, un contadino coadiuvato da altri due familiari impiega circa 18 mesi ad ettaro.

Il lavoro consiste nello scasso del terreno, la rimozione e l’ammucchiamento delle pietre riutilizzabili per i muri a secco, e lo scavo per la messa in posa. Poi ancora, la formazione dei muri a secco, che comprende il trasporto e la squadratura dei massi per la costruzione delle macere, ed infine il riempimento di tutto con la terra adatta.

Se questo lavoro in passato ripagava almeno il contadino di libertà e serenità, oggi non è più pensabile, visti i costi, proporre lavori del genere, perché nettamente improduttivi.

Conseguentemente oggi tutto è abbandonato all’incuria del tempo. Oggi s’intravedono appena le sagome dei vecchi casolari ed i gradini che formavano lunghe serpentine di pietra segnalando il confine tra i vigneti, scendendo dal monte fin quasi a toccare il mare, sono letteralmente coperti dall’erba alta e fitta. Spesso s’intuiscono appena seguendo con lo sguardo la scia dei fasci d’erbe che sembrano inseguirsi per tutto il sentiero.

Lungo tutta la costa molte frane si notano ad occhio nudo. Esse sono a Petra Galera, a Cala Iancuia, al Leone o Liuni, al Portello ed a Rosci o Rocchi. Queste frane sono molto giovani, e ciò mette in evidenza l’incuria del territorio da parte dell’uomo ed il conseguente smottamento come causa naturale della predominanza delle evoluzioni atmosferiche sull’abbandono dei contadini.

Un grosso contributo alla trasformazione del territorio l’hanno anche dato i numerosi terremoti che si sono succeduti, che tra l’altro hanno inghiottito una buona fetta di testimonianze di civiltà antiche, che da almeno duemila anni, ma penso anche tanti di più, si sono qui avvicendate.

Dai monaci di S. Elia e fino alla popolazione che qui trovò rifugio durante la seconda guerra mondiale, questi luoghi hanno sempre dato ospitalità a chi se n’è preso cura, rispettandoli.

Note di rilievo sono le leggendarie grotte che qualcuno dice  custodivano i tesori dei predoni saraceni. Bellissima ancor oggi quella delle rondini, misteriosa ed affascinante quella di san Sebastiano, insidiose quelle del Leone. Di tante altre, esistono racconti e leggende legate al costume paesano, ma causa le trasformazioni del territorio e spesso anche la fervida fantasia della gente, esse non sono in alcun modo localizzabili.

Ultima curiosità, riguarda il ritrovamento d’armi antiche durante i lavori di costruzione delle gallerie ferroviarie. Naturalmente questi ritrovamenti sono stati fatti sparire grazie agli speculatori del tempo.

Constatazione di alcuni corsi d’acqua.

L’escursione del tratto di costa che da Bagnara porta a Palmi e poi a Taureana, in parte fatta insieme con Alessandro Carati nel maggio del 1987, mi ha lasciato dentro una gran voglia di tornarci, e la sensazione che una settimana d’esplorazioni non sia  bastata per vedere, conoscere, capire sufficientemente il luogo.

La magnificenza di questo sito, l’odore del mare misto a quello della roccia e della terra, danno una dimensione delle cose che ci trascina indietro nel tempo. A quale era risale il primo insediamento umano in questi territori?

Siamo rimasti entrambi incantati nel trovarci al centro di grandi vigne, abbandonate da tempo, e pensare al grandioso lavoro che l’uomo ha fatto, chissà quanti secoli fa, per renderle produttive.

Giganteschi anfiteatri di rasole scendono dalla cima fino al mare in un dislivello che varia dai trecento ai cinquecento metri. Collegate da innumerevoli gradini formano una grande parete che cambia colore ad ogni stagione.

L’uomo antico, artefice di cosi grande progetto non mi stupisce, anzi lo vedo protagonista della propria vita attraverso le ere, contribuendo allo sviluppo d’altre società che si formarono in questo meraviglioso lembo di terra, oggi quasi sconosciuto ed ignorato.

Alcuni documenti del XI secolo ci danno testimonianza della presenza dell’uomo appena un secolo prima, ma se si pensa ai numerosi ritrovamenti fatti da Gramà a Tracna nel corso di quest’ultimo secolo da appassionati e studiosi locali, si può ipotizzare che l’uomo vi s’insediò ancora molto tempo prima.

Non è di questo però che volevo interessarmi, anche perché privo di conoscenze rischierei di fare grandi confusioni.

L’argomento che tenterò d’affrontare è quello dell’acqua in questi territori, che in passato doveva essere senz’altro abbondante da servire un centro cosi ricco e densamente popolato.

Immersi nello stupendo spettacolo che la natura è l’uomo hanno costruito lungo questa costiera, mi sono accorto che ad ogni spaccatura della montagna, tra costone e costone, la vegetazione è diversa da quella solita. Spesso fitti canneti sostituiscono gli arbusti grassi che generalmente si vedono al centro della montagna. Questi sembrano quasi costeggiare il greto di un fiume che adesso è apparentemente sparito.

Molto appariscente è il lavoro secolare fatto dall’acqua sul terreno roccioso dentro i canneti. Da ciò ne viene fuori quasi un sentiero che dalla cima ci porta al mare senza grossi ostacoli.

A tratti questi sentieri sembrano sparire perché completamente coperti dai canneti. Spesso hanno forti pendenze ed ai loro lati sono custodite casseforti naturali di reperti archeologici. Scendendo da uno di questi, è stupendo vedersi ai lati grandi muraglie costruite con pietre tagliate ed incastrate come un gioco di geometrie. Un lavoro fatto dai monaci?

I terremoti ed altri fenomeni naturali di vario tipo, come l’influenza dell’acqua piovana e del sole battente sulla roccia, attraverso i secoli hanno trasformato questi luoghi e coperto o deviato le numerose sorgenti d’acqua che si trovavano lungo in grande costone roccioso. Alcune sorgenti o infiltrazioni, sono riuscito a vederle. Certamente si tratta d’acqua piovana che s’infiltra nel terreno e s’incanala verso il mare scivolando sulla roccia. Forse è invece qualche rigagnolo che si stacca da un torrente vicino e segue una diversa strada.

In uno di questi posti dove essa sgorga, ho constatato che essa viene fuori dal terreno grazie all’impermeabilità della roccia che non gli permette di disperdersi. Scavando delicatamente con le mani e togliendo un po’ di terra in superficie, il terreno dove l’acqua scorre dopo essere traspirata della terra porosa, è roccioso. Non trovando un passaggio libero risale in piano e scivola sulla roccia. Oggi quest’acqua si perde tra le rocce, e rari sono i casi in cui finisce in mare. Quando lo fa, segue spesso una strada non di superficie me scivola per quasi tutto il suo percorso sotto le rocce per riemergere a pochi metri dal mare sulla sabbia o finire direttamente in pare in profondità come succede a cala Iancuia d’estate.

Uno studio accurato sull’argomento fatto da esperti in materia e non da amatori fotografici come me, potrebbe riservarci maggiori ragguagli tecnici per studiare le società antiche ed il territorio in cui esse s’insediarono tanti secoli fa.

 

Post Author: Gianni Saffioti