Friedrich Werner van Oestéren POVERA CALABRIA – Rubattino editore

FRIEDRICH WERNER VAN OESTÉREN

POVERA CALABRIA

Introduzione di Teodoro Scamardì

Verlag Lumen – Wien-Leipzig 1909

Ristampa 2013 – Rubbettino Editore

Libro consigliato  da comprare e leggere

Nella primavera del 1908 un aristocratico austriaco trentaquattrenne, Friedrich Werner van Oestéren, compie un viaggio in Calabria e visita, oltre ad alcuni importanti centri urbani quali Catanzaro, Cosenza, Reggio, zone dell’interno e ne riferisce nel volume che qui si pubblica per la prima volta in lingua italiana.

All’interno del libro foto antiche molto interessanti

Di seguito alcuni brani che interessano Bagnara

<>

P. 72

La mattina dopo dedicai la mia prima uscita al viceconsole tedesco, al quale consegnai la lettera che mi aveva dato il console di Messina, e ricevetti con grande cortesia tutte le informazioni e i consigli richiesti. Rinunciai pertanto al mio piano di visitare l’Aspromonte partendo da Reggio e decisi di andare a Bagnara per raggiungere da lì l’altopiano calabrese. Preso congedo dal viceconsole visitai Reggio. Dopo il terribile terremoto del 5 febbraio 1783 che la ridusse quasi completamente in macerie, la città è risorta come nuova dalle rovine e deve a questa circostanza il suo aspetto attuale, moderno e promettente. Nella storia di Reggio non è stata questa la prima ricostruzione.

P. 80 -82

«Bagnara», annunciò il controllore. Quindi l’uomo aprì la porta del mio scompartimento e chiamò un portabagagli. In effetti dopo un’ora e mezzo di viaggio ero giunto provvisoriamente a destinazione. Lasciai il bagaglio più ingombrante alla stazione e, guidato dal portabagagli e incalzato da un cocchiere senza carrozza e senza cavallo che non la smetteva di offrirmi i suoi servigi, mi recai dal signore che mi era stato segnalato gentilmente dal viceconsole di Reggio, per chiedere ragguagli su come raggiungere l’Aspromonte. Nonostante fosse a letto ammalato, il bagnarese mi ricevette. Gli consegnai la lettera di presentazione e, sedutomi accanto al suo letto, gli esposi le mie intenzioni. Furono convocati tutti i componenti della famiglia, maschi e femmine di ogni età, e si tenne un consiglio di guerra. Alla discussione partecipò anche il cocchiere che nel frattempo era sopraggiunto e che alla fine, dopo aver tolto dieci lire a quanto mi chiedeva, assunsi alle mie dipendenze con sua grandissima soddisfazione. Mi avrebbe dovuto portare in un primo momento da Bagnara a monte Sant’Elia e da lì in un paesino ai piedi dell’Aspromonte che si chiama, tanto per cambiare, Sant’Eufemia. Per raggiungere Montalto, la cima più elevata dell’Aspromonte a quasi duemila metri di altezza, non c’è un percorso migliore e più facile di questo che passa per Bagnara e Sant’Eufemia. La mia prima meta era, dunque, monte Sant’Elia, un nano di 508 metri. Dopo avergli augurato una pronta guarigione e averlo ringraziato, lasciai la casa del mio consigliere. Sulla soglia di casa c’era ad attendermi – guarda un po’! – il portabagagli. Che attaccamento commovente! Un attaccamento che ebbe la sua ricompensa, come dovrebbe averla ogni virtù. In questo caso si trattò di una monetina d’argento. Il cocchiere lo precedette nella stalla e in un dialetto per me incomprensibile gli disse dove si sarebbe fatto trovare. Mi avviai così verso quel luogo per me ancora sconosciuto, seguito dal portabagagli col bagaglio che era andato a prendere alla stazione. «A destra!», «A sinistra!», «Dritto!» Marciavo eseguendo i suoi ordini e non mi vergognavo di un comandante che, oltre a camminare a piedi nudi, vestiva, si fa per dire, in modo tutt’altro che impeccabile, scompigliato e arruffato com’era. Io mi limitavo a obbedire. Andavamo in salita. Risalimmo su per Bagnara, un paese più sporco che piccolo e con un selciato terribile. Da quando ho messo piede in Calabria, mi sono quasi scordato che possano esserci al mondo dei paesi che non siano attaccati alle pareti di una montagna o che non siano costruiti sui dorsali delle colline. Se Bagnara mi si fosse presentata in una pianura con le strade dritte, la cosa mi avrebbe sorpreso oltre misura e avrei pensato di trovarmi a mille miglia dalla Calabria. Continuai ad andare su e giù per la montagna fino a quando la guida addetta ai bagagli non m’intimò di fermarmi. Ah, ah! Ecco il cocchiere con la carrozzella! E che carrozzella! Tutte le arti di chi aveva provato a lavarla non erano servite a nulla. La polvere aveva ceduto, è vero, ma la vecchiaia e la decrepitezza erano rimaste. La carrozza che mi aveva trasportato da Rimini a San Marino non aveva certo un aspetto migliore e ciononostante il viaggio era stato piacevole, almeno per gli occhi e per il cuore. Ora, in omaggio alla mia destinazione, ero fermamente intenzionato ad accettare tutto. Il sedile era migliore di quanto non mi aspettassi con i cuscini morbidi su cui erano stati stesi in mio onore dei panni bianchi, puliti. La borsa da viaggio era di fronte a me sul sediolino posteriore, fissata abilmente al supporto in ferro della cassetta per evitare che cadesse. Accanto a me c’erano la sacca da viaggio e il mantello. Tutto era pronto per la partenza. Salivamo su per il monte Sant’Elia tirati da due cavalli, molto comodamente anche se piuttosto a rilento. Con questa coppia di cavalli non ebbi mai modo di sperimentare un’andatura diversa da questo passo veloce, né in pianura, né in salita né in discesa. Per il momento non potevo chiedere niente di più di un passo lento. La strada s’inerpicava ripida fra le case di Bagnara che sembrava non dovesse finire mai. Fra i diversi tipi umani incontrati mi colpì un pescatore, un pezzo d’uomo che, seduto su una poltrona davanti casa, s’intratteneva con un gruppetto di persone. Una figura robusta, nerboruta, come scolpita nel legno, il viso bruno, abbronzato, da cui spuntavano un paio di occhi penetranti, spavaldi, incorniciati da sopracciglia bianche. Il berretto azzurro a maglia che gli copriva il capo come un fazzoletto che ricada all’indietro sulla nuca come una calza, gli stava magnificamente. Il fucile, appeso alla spalla, faceva un tutt’uno con la persona. Ecco un vero calabrese! Quando finalmente le case di Bagnara scomparvero dai margini della strada, comparvero al loro posto dei terrazzamenti coltivati a viti. Potevo vederle queste viti in alto a destra e, dalla parte del mare, in basso a sinistra. Giù sotto di me, profondo, lo specchio azzurro del mare che di tanto in tanto potevo anche intravedere attraverso i dirupi. Quando raggiungemmo la località di Pellegrina che si trova in alto di fronte ai cipressi del cimitero di Bagnara, il sole scottava senza pietà. Per placare la sete provocata dalla polvere e dal caldo, inumidivo in continuazione le labbra e la gola con le nespole che avevo comprato a Bagnara in mancanza di arance. Dopo Pellegrina il sole scomparve all’improvviso e il cielo cominciò a ricoprirsi di una nuvolaglia leggera. Constatai con rammarico che anche sui monti della Sicilia si era posato un velo sottile di nuvole e nell’estremo occidente il mare era nascosto da una sorta di ragnatela. Temevo che, raggiunta la cima del monte Sant’Elia, l’unica cosa che avrei visto sarebbe stato un vuoto grigio. Nel frattempo la carrozza aveva attraversato un’altra località. Ora la strada era pianeggiante ed erano pure scomparse le pendici coltivate a viti. Davanti a me risplendeva il fogliame verdognolo-chiaro dei castagni. Ad un certo punto il vetturino, che, avendo a cuore la mia formazione culturale, sino a quel momento non aveva smesso di erudirmi sul nome di ogni località, di ogni monte, di tutto ciò che si presentava al nostro sguardo, disse che avevamo raggiunto la «corona»2. La corona, l’ampia spianata che costituisce la cima, la corona appunto del monte, che non raggiunge nemmeno i seicento metri di altezza, l’avevo già intravista quando, in cima al faro nella punta estrema della Sicilia nord-occidentale, i miei occhi avevano cercato la costa calabra. Già allora il guardiano del faro mi aveva parlato del ruolo importante che quella spianata aveva avuto nei tempi passati; una storia che, ora che l’avevo raggiunta, mi venne riproposta per la seconda volta.

P. 87

La strada portava verso l’interno. Intanto il mare era scomparso con i suoi dèi e i suoi mostri. La strada davanti a me era, come potevo vedere, per un bel tratto ampia e pianeggiante. La vista era limitata dalla parete della montagna a causa della quale ero costretto a fare questa strada passando accanto ad alte querce, acacie e faggi. Poi giù per la montagna finché non vidi Sant’Eufemia, la mia prossima destinazione. Fintanto che l’avevo vista da lontano, quella località non mi era parsa malaccio. I tetti rossi erano splendenti e c’erano parecchie case. Albergo Aspromonte, suonava davvero bene! Il vetturino mi distolse dalle mie riflessioni portando il discorso sui suoi interessi materiali e facendomi una proposta che mi parve degna di essere presa in considerazione. Sarebbe stato disposto ad aspettarmi a Sant’Eufemia finché non fossi tornato dall’escursione in montagna, per poi riportarmi alla stazione di Bagnara.

P. 97

Per un buon pezzo di strada andarono nella nostra stessa direzione, ed io stetti ad ascoltare con attenzione la loro vivace conversazione. Non si udivano più tanti suoni nasali e tanti suoni gutturali e la cadenza era del tutto differente. La vocale che sentivo di più era la “a” che, come ebbi modo di notare, veniva usata anche al posto di altre vocali. In ogni frase non mancava mai la parola “ka” corrispondente all’italiano “qua” usata spesso al posto di “qui”, cosa che non ignoravo perché da Bagnara a Sant’Eufemia avevo sentito come la gente, per chiamarsi, diceva spesso «Veni ka! », «Vieni qua!». Era veramente uno strano dialetto quello che stavo ascoltando! Ovviamente non riuscivo a capire il senso dei loro discorsi, ma il mio orecchio si era tanto abituato a quella inflessione che in seguito mi fu più facile capire la mia guida. Me ne accorsi con piacere quando, lasciata la zona pianeggiante incolta, incominciò a raccontarmi qualcosa.

P. 98

…erano registrati tali successi che si era pensato di costruire un sanatorio per ammalati di tubercolosi in questo boschetto che non è davvero molto esteso. Difatti dopo una leggera salita finiva e cominciava il regno del faggio, un regno molto esteso che giungeva sino alla cima del Montalto, dal quale eravamo ancora parecchio distanti, anche se il mio compagno di viaggio diceva che eravamo già sul «Mundárt». Tutto il gruppo delle montagne che circondano il Montalto, e che ebbi modo di ammirare in tutto lo splendore delle loro faggete, prende il nome dalla cima più alta. Eppure su questi sentieri che portano sempre più in alto ci sono tratti che sono stati spogliati quasi del tutto del loro ornamento. Gli imponenti ceppi grigio-chiaro, che spesso sovrastano il terreno di un metro e più, avevano l’apparenza di lapidi sepolcrali, lapidi in un cimitero di alberi – e, certo, erano anche questo. Che quest’albero stupendo cresca così bene da queste parti, ebbi modo di accorgermene guardando gli alberelli ancora giovani che, nell’ansia di raggiungere quelle chiome che fanno ombra, cercano con forza il sole. Per il momento l’ombra era scomparsa. All’insaputa del vecchio genitore un giovane di Bagnara, evidentemente molto intraprendente, aveva fatto abbattere gli alberi per venderli. Non sentivo, però, nessuna gratitudine per quel suo spirito imprenditoriale: ero anzi irritato per tanta barbarie.

P. 108 – 109

Per scendere dal Montalto c’era voluto lo stesso tempo che per scalarlo e così poco dopo le tre giunsi a Sant’Eufemia. Da lì me ne scappai alla svelta per fare ritorno a Bagnara. Apprezzai la morbidezza dei sedili della carrozza e, pensando alla sella del mio mulo, trovavo rilassanti perfino gli scossoni delle ruote. In compenso soffrivo molto per il caldo opprimente. E dire che in montagna non m’era parso che facesse così caldo! Ora però potevo sperimentare la calura della Calabria. La polvere era così densa che il mio cappello marrone, la sacca da viaggio dello stesso colore e le scarpe gialle erano diventati grigi. Era da settimane che non cadeva una goccia di pioggia. Ero tutto ricoperto di uno strato di grigio. La polvere, penetrando nei pori della pelle, mi aveva provocato delle irritazioni. Naturalmente aprivo le labbra il meno possibile cercando di stare a una certa distanza dal mio auriga che ora era diventato piuttosto loquace. Né mutai atteggiamento quando cominciò a dire che per colpa mia aveva perso una scommessa. Sosteneva di avere scommesso una lira sul fatto che fossi un italiano, einvece gli era toccato pagare dal momento che il signor cavaliere era invece un forestiero. Trovai piuttosto spiritoso quel suo tentativo di scroccarmi una mancia, ma mi limitai a un riconoscimento platonico. Giungemmo a Bagnara verso le sei. Stavolta mi feci condurre alla stazione che si trova più in basso della città che ha circa ventimila abitanti. Nonostante la stanchezza, e per quanto le gambe si rifiutassero di obbedire, feci un pezzo di strada a piedi. Volevo che questa città conservasse di me il ricordo di una persona gentile e perciò andai a trovare il mio consigliere per ringraziarlo e salutarlo di persona. L’uomo aveva ora un aspetto più curato e più sano. Trascorsi una mezz’oretta accanto al suo letto raccontando al convalescente e alla sua signora ciò che mi era capitato nei diversi posti dove ero stato, bevvi due bicchierini di liquore, presi congedo e mi recai di nuovo alla stazione dove, completamente stremato, me ne stetti seduto immobile in attesa del treno.

P. 146 – 147

«Arrivederci, bella Calabria!»: è con questa frase che concludevo la mia relazione. E ora so che di molte cose devo dire: «C’era una volta. Non ci sarà un arrivederci». Povera Calabria! Essa è, in fatto di bellezza paesaggistica, un paradiso. E non le manca nemmeno il serpente. E il suo serpente è una delle forze elementari della natura più terribili che minaccino di distruggere la bellezza della creazione e l’opera dell’uomo. Messina non c’è più; Reggio, quando la rivedrò, sarà diventata in gran parte una nuova città; Bagnara, Palmi e altre località un cumulo di macerie. Non voglio pensarci, non voglio scriverne, non intendo scrivere un necrologio sul recente terremoto e sulle sue vittime. La mia penna si rifiuta. Non sono in grado di riferire sulla catastrofe in modo freddo e oggettivo, riportare i numeri delle vittime come risultano dagli atti ed elencare le devastazioni. È un passato troppo recente, sono ancora tutto sconvolto […]

FRIEDRICH WERNER VAN OESTÉREN

Post Author: Gianni Saffioti