Bagnara tra sviluppo e decadenza

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Dal libro di Alessandro Carati

I Cavalieri dell’Aspromonte

Estrapoliamo e vi proponiamo, con il consenso dell’autore delle parti del capitolo sesto e precisamente del primo paragrafo “Assicurazione, previdenza  cooperazione”, che a nostro giudizio è fra i capitoli più significativi che riguardano il rapporto fra lavoratori ed imprenditori; che in poche parole si riassumeva in quello che era il panorama dell’epoca, non in un rapporto di lavoro ma  di vera e propria schiavitù da parte del lavoratore verso il proprio padrone e Dio in terra.

I trattini indicano che il periodo è stato interrotto.

Tra sviluppo e decadenza

  1. Assicurazione, previdenza, cooperazione

 

Lavorano tutti, uomini, donne e bambini. Solo nel 1886 una apposita legge vieta ai minori degli anni nove il lavoro salariale, ma dai nove anni in su si è già adulti e come tali si lavora. Una parte notevole della manodopera non qualificata era costituita da donne e minori, che avevano salari particolarmente bassi, e la legge non necessariamente andava rispettata. Se il minore era di sesso femminile, lo stipendio era ancora più basso, in quanto ogni riferimento si faceva con il normale salario dell’adulto dello stesso sesso, e noi sappiamo che la manodopera femminile era considerata non qualificata, ragion per cui la donna prendeva, a parità di lavoro (o di fatica, che dir si voglia), la metà o anche meno del salario di un uomo.

Un discorso diverso meritano quei mestieri ai quali veniva riconosciuta una certa professionalità, che erano appannaggio esclusivo del sesso maschile, e che erano meglio retribuiti, pensiamo ad esempio ai maestri mannesi, o maestri d’ascia, ed ai maestri cerchiari, il cui stipendio negli anni del 1912 e 1913 era di lire 60 al mese; ai maestri muratori, ai maestri innestatori e via dicendo. Mestieri tutti per i quali occorreva una certa formazione professionale, che veniva acquisita “sul campo” a prezzo di grandi sacrifici.

Quella dell’apprendistato è una tradizione alquanto antica e rigida, per la quale nei secoli passati si interveniva addirittura con apposito contratto notarile, donde si stabilivano obblighi e doveri del mastro, ma specialmente dell’allievo, per il quale le condizioni di ubbidienza e di lavoro erano spesso assai dure. Ma venuto meno quel formalismo rigido ed obsoleto, rimase la tradizione, e, per fare un esempio, nell’ambito dell’industria agricola, possiamo affermare che un’aspirante innestatore (mestiere di un certo prestigio, il cui stipendio nei primi decenni del novecento si aggirava attorno alle tre lire giornaliere, di con­tro alle lire 1,27 di un semplice lavoratore di zappa), doveva avere sulle spalle anni di tirocinio al seguito di uno o più “maestri”, un tirocinio che, inizialmen­te, comprendeva i più svariati lavori da fatica, e dunque una cieca sottomissione. Quando i tempi erano maturi, e poteva senza conflitti succedere a qualcun altro e iniziare in proprio, solo a prova superata, e con il beneplacito dei mae­stri della sua categoria, questo apprendista veniva considerato e stipendiato come un operaio qualificato innestatore, e poteva a sua volta prendere sotto di sé, insegnare e fare scuola a nuovi apprendisti, e continuare in tal modo le tradizioni del proprio mestiere. Ciò valeva un po’ per tutti i mestieri: ancora negli anni sessanta il “mastro” muratore (il cui stipendio nei primi decenni del novecento si aggirava attorno alle due lire e mezza o tre al giorno), si portava appresso, a seconda del lavoro da farsi, uno o più garzoni da fatica (questa manodopera non mancò mai a Bagnara!), che venivano pagati a discrezione del datore di lavoro, in ogni caso assai meno della metà di quanto riscuoteva il “mastro”. In questi settori non v’era alcuna forma di assistenza o di coopera­zione, il lavoro era quasi sempre in nero, sia per l’uomo che per la donna, e a dispetto di qualsiasi legge, i bambini, dai sette-otto anni in su, continuarono a lavorare almeno fino alle soglie degli anni sessanta, per lo più nei settori della pesca e in quello della fabbrica delle ceste: in quest’ultimo settore lavoravano per lo più in casa, assieme a tutta la famiglia, e ciò perché i salari erano talmente bassi, che il lavoro di una sola persona, dall’alba al tramonto, non sarebbe bastato a portare avanti una famiglia neppure per due settimane: ma distribuendo il lavoro fra tutti i componenti del nucleo famigliare riuscivano parca­mente ad arrivare alla fine del mese.

In definitiva, condizioni di lavoro estreme, che trovano parziale posto e giustificazione nel contesto del tessuto sociale e delle specifiche tradizioni in cui si esplicano. Se si cade ammalati si sta a casa e, se il padrone vuole, se l’operaio si è reso meritevole, egli può, a sua completa discrezione, elargire un prestito o un’elemosina.

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Agli inizi del novecento a Bagnara v’erano due società: la Società Opera­ia, sorta per merito del dottor Antonio Candido, e la Società Agricola, entram­be sorte all’ombra di una egemonia borghese, e dunque ben lontane dal soddisfare i veri e reali interessi della categoria; e nella frazione di Ceramida, attorno al 1918, esisteva una cooperativa agricola, denominata “La Vittoria”, con un esiguo numero di soci, che possiamo definire “operaia” nel vero senso del termine, e quindi, nel totale disinteresse dei padroni, abbandonata a se stessa.

A Bagnara, nello stesso periodo, ancora operava la Società Agricola, mentre le borgate di Pellegrina e di Solano furono sempre sprovviste di qualsiasi ente od associazione a favore dei lavoratori. Ciononostante, il numero dei soci iscritti in tali enti, in confronto alla popolazione agricola nel suo complesso, era quanto mai esiguo e per nulla rappresentativo, e questa esiguità nel numero degli iscritti, per lo meno nel caso della cooperativa Vittoria di Ceramida, si ripercuoteva in maniera determinante e deleteria sulla loro economia e funzionalità. Possiamo anche ricordare, che per lo meno dal 1913, vicino a Ceramida, ovvero a Barrettieri, frazione di Seminara, era operante un’altra “Società Agricola”, che in detta data aveva per presidente un certo Celi Pasquale. Un posto a se stante, in quanto coinvolge uno dei settori di lavoro più redditizi, merita la Società di Mutuo Soccorso fra gli Operai Cerchiai, la quale, avendo alle spalle un fiorente e ricco mercato, riuscì per qualche anno ad operare con un certo successo, a differenza di tante altre.

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Possiamo apertamente affermare che la cosiddetta Banca Popolare Coo­perativa di Bagnara fondata nel 1882 (fallita in epoca fascista mezzo secolo appresso), e che fu la prima banca popolare in provincia di Reggio, e la Cassa di Credito Popolare, costituita con atto del 14 febbraio 1892 (quest’ultima interamente in mano ai De Leo), furono esclusivamente il risultato dell’imprenditoria egemone, che poco interesse dimostrava nell’impegnarsi a favore delle classi più deboli e bisognose. Assai scarso successo ebbe, a quanto sembra, anche l’Istituto di Credito Vittorio Emanuele III, con il quale lo stato italiano tentava, con prestiti ed agevolazioni di vario genere, di venire incontro anche alle vitali esigenze dei contadini e dei piccoli proprietari, e nel quale per diversi anni Antonio De Leo rivestì un ruolo non indifferente. Tra la grande ricchezza e la povertà, non vi furono mai molte vie di. mezzo.

In una società come quella di Bagnara, dove il divario tra servi e padroni era quanto mai diffuso e avvertito, il denaro circolava solo nelle tasche della borghesia e soprattutto in quelle dei padroni (quasi esclusivamente i grossi commercianti, di terra o di mare, i proprietari ed i latifondisti), mentre la maggioranza delle famiglie lavoratrici, ovvero l’universo della manovalanza non qualificata, affondava nell’ignoranza e viveva ancora nel mondo del baratto, dei doni, degli scambi e, in definitiva, di una reciproca angusta solidarietà tra poveri. Non venne mai fuori, tra le due sponde, quella del servo e del padrone, alcuna valida cooperazione in grado di alleviare o sostenere in meglio le sorti del lavoratore, e la prodigalità, anche quella dei De Leo, si mantenne sempre ad un livello di semplice carità o di elemosina, quanto mai necessaria a salva­guardare gli equilibri sociali e politici in voga.

A Bagnara, negli anni trenta, sorse pure una “Unione Operaia Cattolica”, dove i lavoratori avevano per lo più modo di riunirsi, di dibattere i loro problemi, le loro questioni, di tenersi aggiornati, ma niente di veramente incisivo, o che non stesse obbligatoriamente entro i dettami ed i parametri dettati dagli imprenditori o padroni che dir si voglia. E non erano queste le sole cooperative o associazioni sorte nel nostro paese, e, almeno per quanto concerne il lasso di tempo da noi preso in considerazione, possiamo affermare che la cooperativa dei pescatori “Vincenzo Fondacaro”, fu la più antica cooperativa sorta a Bagnara, a difesa di una categoria di lavoratori che allora, e fino alle soglie degli anni sessanta, ovvero fino a quando non caddero le vecchie restrizioni e non inizia­rono a piovere i sussidi dello Stato, restò tra le più precarie, disagiate e bisognose. In periodo fascista ebbe a crearsi, promossa dal partito, un’altra cooperativa di pescatori, intitolata a “Luigi Razza”, ma ebbe breve durata ed assai scarso peso sulle condizioni di vita dei lavoratori del mare.

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Esula dall’economia del nostro lavoro trattare delle società, delle associazioni, o delle cooperative che di volta in volta, convissero o si avvicendarono a Bagnara. Possiamo tuttavia affermare che quando sembrò che ci fossero (emblematico il caso dell’Ibla, sorta negli anni del 1940 come cooperativa fra i padroni delle varie segherie esistenti lungo la sponda dello Sfalassà, e sopravvissuta solo qualche anno), ad esse fece sempre difetto la fede ed una vasta e sentita partecipazione, e dunque una solida base economica, mentre la competizione, l’egoismo, l’interesse personale e di parte, finirono sempre per ottenere il sopravvento su quello della collettività e della realtà sociale nel suo complesso. Ben lontani dall’offrire un contributo disinteressato e aperto, privi di ogni coscienza imprenditoriale, in anni che non rispecchiavano più quelli felici di una volta, non si faceva altro che attendere la precarietà di un profitto immediato, qualunque fosse, a scapito dell’interesse comune e di ogni forma di reale progresso sociale.

Nella città v’erano altresì diverse confraternite, tra le quali primeggiava­no quella del Rosario e quella del Carmine. Ognuna di esse poteva godere della preferenza di intere categorie di lavoratori; per esempio, nel Carmine, trascinati dai De Leo, erano confluiti gran parte dei suoi coloni e dei lavoratori dei boschi (mannesi, cerchiari, segatori e via dicendo), tuttavia nessuna con­fraternita si interessava in maniera specifica dei problemi connessi al mondo del lavoro. All’ombra della fede, della religione, del prestigio di parte, le confraternite operavano strettamente controllate ed asservite agli imprenditori e padroni del momento: i De Leo hanno sempre primeggiato al Carmine, tanto da farne quasi un loro piccolo feudo di pietà religiosa e di prestigio personale, e possiamo affermare di essere di fronte ad un sottile, quanto mai mirato, feno­meno di asservimento etico e morale delle masse operaie e delle loro famiglie.

Il fanatismo esasperato, l’orgoglio di appartenere a questa o a quell’altra congrega, erano una delle risultanti di una pietà popolare e religiosa, che a buona ragione, non faceva altro che rallegrare l’animo di chi ne teneva e ne manovrava socialmente e politicamente le fila. E per inciso possiamo ricorda­re che a Bagnara, la nascita delle due più prestigiose e potenti confraternite, fu un fenomeno squisitamente politico, promosso con grande acume e lungimi­ranza dai potenti Ruffo, al solo scopo di attirare su di loro gran parte di quella benevola e compiacente attenzione, popolare ed ecclesiastica, che a buona ragione, donando loro il prestigio degli uomini di fede e dei benefattori del popo­lo, ne avrebbe promosso e giustificato un operato e una politica non sempre consone ai canoni della giustizia, non sempre limpide e leali nel loro tracciato.

In definitiva, per il lavoratore, non c’era nulla di lontanamente paragonabile ad una vera e propria assistenza, seppure ridotta ai confini di un paese che ospitava uomini di tanto prestigio sociale, ed anche questo contribuiva non poco al divario esistente tra il ricco ed il povero, all’asservimento di quest’ultimo, ed al contempo, alla sua diffidenza e mancanza di fiducia verso ogni istituzione sociale, e talora al suo naturale disprezzo, verso tutti i padroni. Erano mondi diversi e contrapposti quello del servo e del padrone; e a livello istituzionale faceva difetto un terreno sociale donde l’uomo potesse trovarsi a contatto con l’uomo. E mentre i signori ed i padroni, pur in mezzo alle loro guerre intestine e di potere, che sempre impedirono loro di organizzarsi in maniera comune, nel complesso potevano ritenersi ben organizzati fra di loro, e potenti e talora feroci verso i loro paria; quelli si dovevano arrangiare come meglio potevano, trovando nella famiglia e nella propria miseria il loro terreno e le loro ragioni sociali: si cementa in tal modo, fuori dal servilismo, un rispetto ed una solidarietà tra poveri oggi scomparsi e forse inimmaginabili.

In questo sottobosco nascono e s’impongono nuove regole e norme di comportamento sociale, che danno il coraggio necessario per tirare avanti, mentre tutto il resto va affidato alla speranza e alla fortuna. Quando, dopo una esistenza di stenti e di fatiche, ad un’età imprecisata, stabilita unicamente dallo stato di salute e dal rendimento fisico della persona, si diveniva inabili al lavoro, e dunque senza una pensione o qualsivoglia reddito fisso, l’anziano veniva preso in protezione dalla propria famiglia, che dunque se ne rendeva garante, provvedendo, come meglio poteva, ai suoi bisogni: in sostanza, dal punto di vista economico, diveniva un peso a carico, difficilmente sopportabile, se, in una con gli stenti e le avversità della vita, non si fosse creato e radicato in seno alla famiglia stessa, un forte legame di solidarietà, di coesione e di affetto, che in un contesto più ampio, davano vita ad un impegno sociale necessario ed imprescindibile. E tale vincolo famigliare, negli anni duri del primo novecento, si andò consolidando sempre di più, creando valori di convivenza sociale quanto mai positivi, salvo poi, in seguito, specialmente a partire dalla fine de­gli anni cinquanta, con il progredire dell’economia e con il diffondersi del benessere, mutare in peggio, quasi una latente rivolta verso tutte quelle istituzioni sociali che si erano sempre rivelate assenti nei loro confronti, e verso le quali ci si rivale, restando sovente isolati nel proprio microcosmo, vittime del­l’egoismo, per rivelarsi in più occasioni, di ostacolo e di peso verso tutto quan­to esula dal proprio emisfero, e dunque anche nei confronti dei propri simili, della società in genere, e di una visione più ampia e globale della vita: il pove­ro sente finalmente che il miraggio della sua emancipazione va trasformandosi per assumere contorni sempre più vicini alla realtà, e vive ed interpreta a suo modo, e, vittima di un passato di soprusi, di sopraffazioni, e di ignoranza, non sempre a modo giusto.

Lungi dal trovare e realizzare un coerente e pacifico status sociale, tale fenomeno di ripulsa e di disinteresse verso tutto quanto esula dal proprio im­mediato microcosmo, ha favorito, e paradossalmente favorisce a tutt’oggi, la parte più insensibile e rapace della moderna classe dirigente, in un gioco di “politici” decadenti, senza patria e senza rispetto per il bene comune, che ci riporta ai secoli più bui ed oscuri della nostra storia, passata e recente. Ed in sede di estrema sintesi, quale macroscopico ed anche paradossale risultato del nostro progresso, possiamo affermare che se un tempo erano i giovani a dover presto provvedere alla famiglia, al giorno d’oggi è la famiglia a doversi pren­dere carico dei giovani, fino a tempi che vanno ben oltre la loro maggiore età.

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Il vecchio Antonio De leo non crediamo abbia mai stipulato contratti in piena regola a favore dei suoi lavoranti; e neppure il nipote è stato solerte a ricorrer­vi, crediamo ci abbia fatto un pensiero dopo il gennaio del 1913, allorché entra in funzione l’Istituto Nazionale delle Assicurazioni (I.N.A.), con sede a Roma; ma possiamo affermare che solo in epoca fascista, il governo intensifica i con­trolli in merito, ricordando le dure pene previste nei confronti dei trasgressori e degli inadempienti, e fu allora che in modi e maniere assai limitate, diversi suoi operai iniziano ad usufruire di un contratto collettivo di assicurazione, obbligatorio, tra l’altro, anche ai fini della pensione: ma se consideriamo la totalità delle persone impegnate nella sua azienda, che in certi periodi dell’an­no potevano raggiungere e superare le seicento unità (in un solo fondo, nel tempo della raccolta delle olive, in una giornata lavorativa s’impiegavano agevolmente ben oltre il centinaio di persone!), possiamo affermare che ad usufruirne furono pochi fortunati, impiegati a tempo pieno, per lo più in pochi settori trainanti dell’azienda.

Bene assistiti e stipendiati, erano, in primo luogo, i suoi vari amministratori e capi fattori, che nelle principali tenute svolgevano tutte quelle funzioni amministrative e dirigenziali, relative al personale, impiegato o da impiegarsi, di volta in volta, nell’azienda, sovrintendendo, in costante rapporto con il padrone, anche all’andamento dei prezzi e del mercato; in ogni caso la totalità dei lavoratori stagionali ed occasionali restava fuori da qualsiasi forma di assistenza pubblica. Costoro, soprattutto le donne impiegate nella raccolta delle olive, lavoravano per il breve periodo di qualche giorno, alternandosi fra i vari grup­pi, in maniera da potere disattendere a qualsivoglia forma di impiego legal­mente riconosciuto. Una volta che tale -assicurazione non potrà più essere disattesa, vedremo i nostri maggiori imprenditori ed il nostro Antonio stipen­diare un apposito responsabile, “incaricato”, per tenervi dietro: allora come per incanto noteremo quanto numerosi, e talora anche seri, fossero gli incidenti cui si andava incontro nel lavoro dei boschi (lavoro d’ascia, soprattutto), nei lavori di campagna in genere, e però anche gli incidenti in cui incorrevano le donne nel trasporto dei grossi pesi, allorché mettevano un piede in fallo, o scivolavano su di un terreno bagnato, o nel salire lungo le passerelle di legno, reso viscido dalla pioggia, che portavano ai vagoni ferroviari.

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Possiamo affermare, senza ombra di smentite, che fra i grandi “padroni” di allora, Antonio De Leo fu Rosario, non mancò di fare del bene, anche disinteressatamente, ogni qualvolta gli si offrì l’occasione, meritando onori e riconoscenze, come quella che lo vide presidente onorario della “Società di Mutuo Soccorso fra gli Operai Cerchiai”, e per questo venne sinceramente ricordato, forse amato, dalla più parte dei cittadini più bisognosi che ebbero ad usufruire della sua beneficenza, odiato dai molti esclusi, e guardato con dovuto rispetto anche dagli avversari.

Post Author: Gianni Saffioti