Costa viola 1986: escursione a San Sebastiano

COSTA VIOLA 1986: escursione a San Sebastiano

di ALESSANDRO CARATI

Rosci è una piccola rada chiusa dai monti, sita a nord-est del paese, da dove, per raggiungerla, fino agli anni sessanta bisognava salire lungo le scalinate in pietra ed incamminarsi lungo le rasole dei vigneti che sorgevano presso la cosidetta “Torre di Ruggeroâ€, per discendere poco a poco nel litorale presso le scogliere ai piedi della torre stessa; poi qualcuno spianò un sentiero che tagliava gli estremi lembi dei vigneti, e che, dalla fine degli anni settanta in poi, allargandandosi, divenne una stradetta in terra battuta: quando nel 1984 si dette l’avvio ai lavori del porto, si rese necessario asfaltarla e provvedere ad una adeguata manutenzione: e tale strada, misera e dimessa, così come allora si provvide, oggi la vediamo.

La spiaggia di Rosci, sulla quale declinano le falde del monte, si estende non oltre qualche centinaio di metri. E’ pressocchè chiusa a tenaglia, sia a nord che a sud dalle ultime propagini dell’Aspromonte,  che quasi ovunque scende ripido, specialmente a nord, dove crea delle alte muraglie sul mare; a sud, la falda montuosa declina e si dilunga su quella dilaniata scogliera al cui sommo campeggia la “Torre di Ruggeroâ€: essa, una fra le tante torre cavallare costruite a partire dalla metà del ‘500, ristrutturata allorchè si provvide ad avviare i lavori del porto ad essa sottostante, ancor oggi, un po’ bistrattata dai discutibili restauri subiti in fretta,  sembra adempiere alle sue funzioni di vedetta, e permane, nostalgica, a cavallo di Rosci e dell’estremo lembo del centro abitato.

Dopo gli anni sessanta, i vigneti ed i giardini a terrazza che dalla linea ferrata declinano fino a lambire la spiaggia, subirono un lento abbandono, e non perché difettavano la forza e l’amore per accudirli, ma perché, nel generale risveglio economico proprio di quegli anni, la loro conduzione andava già rivelandosi onerosa e financo controproducente, tanto che investire su di essi diveniva un rischio sempre più tangibile e reale, e una necessità per chi non aveva altra fonte di reddito. La grande ala del progresso che per tanto tempo aveva ignorato e bistrattato il nostro contadino, offriva adesso nuovi orizzonti, e lo blandiva con le sue carezze, e però poco concedeva alla coltura dei vigneti a terrazza, così vicini e così distanti allo stesso tempo, già simbolo della nostra esistenza e della nostra industriosità.

A cosa era servito il lavoro dei vecchi, di intere generazioni dei nostri caparbi antenati, se non a donar loro, anche nella miseria più nera, la coscienza del proprio lavoro, e con essa l’orgoglio e la fierezza di essere uomini !?. Ma eravamo ormai lontani dalla mentalità di un tempo, e l’avanzare dell’economia offriva di più e a minor costo.

Negli anni settanta l’avidità e lo spregio per il patrimonio ambientale, in una con la rapacità umana e le nuove esigenze, tra l’altro sempre avvertite in seno al popolo, toccano Rosci, l’unica rada vicina al paese, e rimasta illesa dalle speculazioni edilizie e dal cemento armato, salvaguardata com’era dalle leggi sull’ambiente: a suo modo la costruzione della strada ferrata a fine ottocento inizi novecento, pur mutandone l’aspetto ancora selvaggio, ricco e vivace dei suoi vigneti a terrazza, pur aprendo una sensibile ferita, l’aveva risparmiata, perché poco visibile dalla spiaggia per un occhio distratto; adesso invece smantellando macera su macera erano sorti una villa, con grande piscina e adorna di bei giardini e di palmeti, con ampie balconate sul litorale; ed infine si dà il via alla costruzione dell’agognato porto.

Possedere un porto fu sempre un sogno per i pescatori di Bagnara: già nel lontano 1799 se ne era fatta richiesta a re Ferdinando IV, ottenendone il reale beneplacito. Ma la fuga del re incalzato dai francesi, ed il precipitare degli eventi nel regno, fecero sì che nulla si facesse. Occorrevano opere di difesa a salvaguardia del litorale, altro che porto!. Così tutto saltò! Poi nell’ottocento, con la dominazione napoleonica, lungo i litorali sorsero fortilizzi, ed anche da noi, nei pressi della torre.

Ma nel 1984, a distanza di quasi due secoli, ruspe e motopale scendono sulla spiaggia, fanno la barba ai vigneti scalzandoli senza pietà, sterrano, riversano migliaia di massi di cemento per fare arretrare il mare (soprattutto ai piedi della scogliera dove campeggia la torre, perché quel luogo si sarebbe venuto a trovare proprio al centro dell’ansa del porto), accatastano tonnellate di ferro per dar nervo alle enormi muraglie che si sarebbero costruite, creano ampie spianate dove prima c’era la spiaggia, la occupano quasi del tutto con montagne di enormi blocchi di cemento, e si formano pozzanghere che sembrano laghi di fango: per qualche anno i topi vissero felici, e l’uomo attonito guardò la potenza del suo ingegno.

I vigneti che un tempo ridenti sembravano specchiarsi nelle onde del mare, adesso giacciono sventrati, e la fatica degli operai sembra non aver fine, muovendosi come formiche tra il via vai delle ruspe e dei camion ed il caos degli spiazzi fangosi, delle distese dei massi di cemento, delle baracche sparse qua e là.

Ma nell’estate ancora giungono intere famiglie, con i loro bambini, a fare il bagno e ad ammirare quello strazio, ed i grandi ricordano e dicono quanto era bella questa gemma di Bagnara, quanto si lavorava su quei pendii per accudire i giardini, quanto era buono il vino, e quanto rispetto si aveva un tempo, per la natura, l’ambiente e i propri simili.

Gli operai guardano perplessi, e spesso non sono tranquilli, perché la presenza dei bagnanti, pur relegati verso l’estremo del litorale, li disturba e li rende irrequieti, quindi li fanno spostare, più in là, poi ancora più in là, perché si lavora, si fatica, si fa quanto doveva essere fatto al tempo di re Ferdinando, quando però nessuno si sognò di oltraggiare questa rada, perché il posto prescelto stava altrove.

Fra i vigneti e i giardini che ancora rimangono, da mezza costa in sù, c’è qualche casetta bianca celeste, costruita con pochi soldi e in soli due giorni, e pronta per essere smantellata con altrettanta fretta, mentre al discosto della strada ferrata, in basso, e proprio a ridosso del porto, è ancora lì, con la sua perenne faccia tosta rosso mattone, che spunta fra i palmizi dei suoi giardini, la grande villa a due piani, vago miraggio di zona residenziale, costerlata delle sue lunghe balconate, con la piscina tutta sua, costruita con i soldi dell’insolenza e ormai in salvo grazie al condono dello Stato, quello crollato sotto il peso delle tangenti e del clientelismo. Gode il paese di un tale monumento, che con tanta lungimiranza ha precorso i tempi, facendo a tutti comprendere, se ancora ce n’era di bisogno, con quanto amore e quanta lungimiranza l’amministrazione comunale abbia gestito il suo territorio.

A qualche centinaio di metri, a levante, ma più in alto, a pochi metri dalla ferrovia, sorge una baracca di legno e lamiere, diversa dalle altre,  piccola, racimolata pezzo a pezzo, ma costruita con grande cura; e appollaiato su di una macera, in solitudine e sopportando il frastuono dei treni che passano di volta in volta, stà Francesco Triulcio, con una gamba penzoloni, l’altra piegata sul muro, il gomito sul ginocchio, e la testa adagiata pesantemente sul pugno chiuso. Dall’alto domina, e guarda immobile i lavori del porto, ascoltando nel suo cuore il silenzio di un tempo, come se nulla potesse sfiorare la sua mente; però attende una nave che lo porti in Australia.

Scendemmo su Rosci ed appena possibile, dopo esserci soffermati a guardare i lavori del porto, abbandonammo la spiaggia in direzione dei vigneti. Ci aprimmo una strada, fra le macere, lungo le strette scalinate di pietra e gli sterrati, poco al discosto dalla villa, e nascosti fra le mura a secco, i vigneti e la vegetazione, salivamo verso l’alto. Arrivammo diffidenti e come svuotati, quasi avessimo scalato una muraglia, carichi solo delle borse a tracolla dove erano custodite le nostre attrezzature fotografiche, ridotte al minimo perchè scelte apposta per una breve passeggiata. Chiacchieravamo svogliati e senza più speranza, dopo avere nei giorni precedenti vagato lungo la costiera tra i monti che da Rosci,  precipiti sul mare, si spingono fino a Palmi: eravamo alla ricerca della grotta di San Sebastiano, della quale tanto, e forse a sproposito, avevamo sentito parlare. La gente racconta che è assai grande; che in essa esiste un cunicolo che dopo centinaia di metri nel cuore del monte, raggiunge il paese di Seminara, che stà a pochi chilometri all’interno, quasi ai bordi della Piana, quando iniziano le prime colline. E Mica stessa  me lo confermò, tutto d’un fiato, e a voce alta e concitata, come era suo solito, dicendomi:

“E’ veru, è veru!

E chistu ‘u sacciu ‘i precisu!

Perchè quannu ci miseru nu gattu, e n’ ci attaccaru nu fioccu, e lo iettaru dentr’ u cuniculu; chistu scumparìu, e dopo iorni cumpariu a Seminara. Tuttu magru e sconsulatu, povera bestia!.

Na vota, ti parlu di tanti anni fa, a lu tempu de li infedeli ( ma tu stì cosi i sai megghiu ‘i mia!), ci stavanu i sarracini, che ammazzavano e rubavanu li poveri cristiani.

Mala nova m’avianu!

Quantu eranu feroci!

E si nascondevano iàni.

A genti truvau spati e scudi, e per chistu t’u dicu.

E’ veru, a grutta c’este: est’iàni, dint’a montagna.

Ma nun sacciu dove!

E lu cuniculu, u’ passaggiu secretu d’i sarracini, c’este pure isso!

Non sacciu dove!

Ma tu nun ci jiri, stattinni a casa!â€.

E questa grotta che molti dicevano esistere, ma di cui conoscevano il nome soltanto, e talora neppure quello, noi l’avevamo cercata per giorni e settimane, quasi con avidità, scorrazzando fra i monti, fra i valloni e i precipizi, in mezzo ai vigneti a terrazza abbandonati al solleone, tra quei vigneti che dominano lungo la costiera, ovunque, fino al limitare dei precipizi, fino agli estremi affacci sul mare: un tempo fiorenti e opulenti, prima che la filossera nella seconda metà dell’ottocento (a partire dal 1882 ed a più riprese), li distruggesse, costringendo i contadini ad un drastico e inesorabile abbandono; salvo poi un timido ritorno nelle zone prossime al mare, e di più facile accesso, donde fino al dopoguerra le nostre barche facevano la spola, trasportando le maestranze e l’uva per la vendita e la vendemmia.

Quel primo pomeriggio andando a Rosci per fotografare i lavori del porto (era l’estate del 1986), camminavamo e parlavamo della grotta, a voce alta e rotta per gli stenti del percorso non certo agevole. Senza farci caso, arrivammo in prossimità di una baracca, quando all’improvviso, apparsoci come un fantasma, vedemmo Francesco.

Smilzo, vestito di canotta nera, jeans laceri e rattoppati, scarpe in tela sbucciata, volto asciutto e sottile, con il ghigno di un sorriso ombreggiato da zigomi prorompenti, Francesco ci osservava. Quasi a non farci andar via, volò giù dal suo trespolo di pietre e ci venne incontro, con la massima indifferenza, con quella calma e serenità che dovette possedere Davide quando, baciato dal divino, si trovò dinanzi a Golia.

“Se vuliti avvidiri a grutta†disse, “vi ci carriuâ€.

Restammo allampanati! Non lo conoscevamo, non l’avevamo mai visto, di chi era figlio, chi erano i suoi!?.

Nel silenzio straziato delle vigne, aveva ascoltato i nostri discorsi, aveva compreso e apprezzato il nostro desiderio, e adesso afferrava i nostri cuori tendendoci una mano. Mancavano quattro ore al tramonto, e sapevamo che il posto era a non meno di tre o quattro chilometri dal punto dove eravamo, ed altrettanti ne occorrevano per il ritorno. Ci guardammo in volto e guardammo colui che insisteva con aria di sufficienza e di sfida, con un sottile sorriso sulle labbra, quasi impercettibile in quella carnagione annerita dal sole e graffiata da muscoli sottili. I nostri sguardi dopo essersi incontrati senza trovare risposta, corsero allibiti sui ripidi pendii dei monti a noi d’intorno, e con la mente andammo su quelli ben più aspri e selvaggi della costiera, con i loro esausti avanzi di vigneti e orti, dispersi in quegli interminabili labirinti di terrazze e macere, svuotate, deserte, dirute, d’estate arse dal solleone, d’inverno investite dalle feroci tempeste e flagellate dal vento, chilometri e chilometri di infinite strisce di pietra su pietra, rosario di un immenso anfiteatro, dove gli spettatori sono fantasmi, e attori il vento e le tempeste, e un sole arido e infuocato.

Non riuscivamo a comprendere come avremmo fatto, in così breve tempo, a percorrere tanta strada lungo quei ripidi fianchi; ad arrivare alla grotta, visitarla, e  ritornare senza farci sorprendere dal buio.

Francesco era lì, e ci fissava con i suoi occhietti piccoli, con lo sguardo rigido, incavato dentro orbite dolci e malinconiche.

Non doveva essere una persona cattiva, e per quanto dimesso fosse nell’aspetto, emanava un fascino strano: certo non aveva parlato a vanvera, sapeva il fatto suo!.

La sorpresa di quell’incontro era stata paralizzante per almeno uno di noi, e l’invito di Triulcio pungeva il nostro orgoglio.

Non era troppo lontano?.  No!. Avremmo preso una scorciatoia! Bisognava solo decidere in fretta, e così accettammo la sfida!. Parole ne volarono poche: Francesco non amava parlare, ma nei gesti e nello sguardo c’era un dialogo infinito e profondo. Lui sapeva quel che faceva, e non ci doveva alcuna spiegazione! Si portò alla sua baracca, s’armò di un coltello e di una piccola torcia, ci fece cenno di seguirlo, e con tutta calma prese lungo la strada ferrata, proprio come se avesse atteso noi per mettersi in cammino. Aveva un passo veloce e modulato, niente affatto veloce a vedersi, ancheggiava leggermente sul fianco destro, ma era costante come l’andazzo monotono di un pendolo. Snello, longilineo, ci precedeva silenzioso, puntò innanzi la torcia e  infilò la galleria ferroviaria, attese un’attimo, e appena ci fu sufficiente luce per non farci inciampare, proseguì spedito fra il pietrisco e le rotaie di quel lungo tunnel che andava perdendosi nel buio dinnanzi a noi, con solo pochi e sparuti spiragli di luce, di quando in quando, che provvenivano dalle piccole gallerie secondarie, che servono per il ricambio dell’aria, e all’occorrenza, per eventuali soccorsi o altre necessità.

Sentivamo il rumore dei nostri passi e delle pietre che calpestavamo, non altro, e all’intorno un gran buio e un’aria fredda e glaciale, un po’ umida, e dall’odore acre e fastidioso. Lo seguivamo come allibiti ed ancora confusi. Come è strana la vita! Quante sorprese riserva, e quante emozioni! Come il vecchio genitore che talora addolcisce le pillole, talora le offre amare, talora ti distrugge, e quando proprio non lo pensi ti sorregge. Ironia del destino io e Gianni eravamo ferrovieri, in un certo qual modo abituati alle rotaie, e ci facevamo guidare da uno che tale non era.

Imboccando la galleria ferrata, il mio primo pensiero fu quello di non rivelarmi come ferroviere, né d’altronde potevo, con la mente ai sassi e alle rotaie e un po’ confusa da quel dolce precipitare degli eventi. In effetti, pur rispolverando le mie nozioni ferroviarie, tale scienza non mi veniva incontro in alcun modo: unica via di fuga restava la nicchia di soccorso. E credo che un simile stato d’animo, corresse nel mio amico, forse, in simile frangente,  ignorante al par mio, anche se più riservato del sottoscritto, sapeva meglio celare le sue emozioni: ed entrambi ci trovammo ad ammiccare alle spalle di Triulcio, misurando il nostro orgoglio con l’esigenza di rimetterci completamente all’esperienza di questo ragazzo, che ancora non conoscevamo, ma che avanzava tra il pietrisco e le rotaie con tranquillità e sicurezza estrema, facendo luce con la lampada e voltandosi di tanto in tanto per vedere se gli stavamo al passo. Il suo ritmo era così spedito, che a fatica riuscivamo a scambiarci un’occhiata o una parola, ed andavamo in silenzio timorosi dell’arrivo improvviso di qualche treno, attenti a non incespicare, e tenendo d’occhio le nicchie di ricovero. Con Gianni ero avvezzo alle lunghe maratone, avevamo alle spalle settimane di allenamento, e credo che altrimenti non ce l’avremmo fatta a tenere dietro al silenzioso Triulcio. Ed ecco il primo allarme!

“Veni u trenu: mettitivi entru i nicchie!†ci disse con voce alta e pacata continuando il cammino.

Non lo avesse mai detto: spalancammo gli occhi, non vedemmo nulla, ma nel dubbio corremmo in fretta, lo sorpassammo e ci scaraventammo l’uno addosso all’altro nel ricovero più vicino; Triulcio arrivò poco appresso, con calma, sereno, quasi gioviale, con in volto un sorriso. Eravamo emozionati!.

Senza riflettere esclamai: “ Meno male che ce l’abbiamo fatta!â€.

E tutti e tre stavamo a contatto di gomito nella nicchia, confondendo i nostri respiri, mentre il tempo sembrava non passare, ed i nostri sguardi già s’incontravano dubbiosi e imbarazzati. Come aveva fatto Francesco a sapere che il treno stava arrivando? Inizialmente non mi raccapezzavo, e neppure Gianni. Forse il nostro amico ci stava prendendo in giro, e, sotto sotto,  rideva di noi.

“Tu sei pratico della galleria, conosci gli orari dei treni, ma come sai che arriva proprio adesso? Forse ha mezz’ora di ritardo, ma anche un’ora: e non viene!.â€

“Vene, vene!†disse lui “ ‘ntisi l’aria. Ma s’era pe’ mia faciva ancora centu metri.â€

 Disse lui con faccia tosta, e aggiunse: “ L’aria! Faciti casu! Quannu lu trenu intra nto lo tunnel, si sente nu ventu che vene leggiu leggiu, e l’aria rinfresca e sale pocu a pocu. Sentite†insistette Triulcio mentre un venticello impetuoso irrompeva a smuovere gli odori.

“Si, è vero!†disse asciutto Gianni, ed io sorrisi soddisfatto.

 Era una cosa talmente elementare, ma noi presi da altre sensazioni e dai più strani pensieri, avevamo le cervella atrofizzate: era quanto mai ovvio che imboccando la galleria il treno provocasse un forte spostamento d’aria, e che questa giungesse a noi in modo proporzionale alla distanza ed alla forza del suo impatto con la galleria. Stavamo stretti nella nicchia quando il treno passò, senza far vittime, a velocità alquanto floscia, come facevano allora tutti i treni locali, senza onore ne gloria

“Pensavo peggio†dissi “Non è successo niente!â€

E mentre la coda del trenino si allontanava, Triulcio già camminava dinnanzi a noi, che eravamo rincuorati e senz’altro più coraggiosi, e anche se ancora non abituati all’arrivo del treno, di sicuro oramai, con tutti i nostri sensi allertati, l’avremmo percepito al pur minimo mutamento d’aria. E di treni ne transitarono ancora, e noi entrammo ed uscimmo da più di una galleria, fino a che, dopo un ampio curvone, laddove di sbieco traspariva una tenue luce, ci infilammo per uno dei cunicoli d’emergenza e finalmente, come liberati da una prigione, guadagnata in fretta l’uscita, ci trovammo su un ruvido dosso, sovrastante la marina. Respirammo con avidità un’aria pulita e soave, pregna del profumo di mille fiori, e cullata dalla brezza del mare, che steso come un enorme lenzuolo ondeggiava i suoi riflessi cento metri sotto di noi.

In breve fummo pronti a percorrere i sentieri abbandonati ed impervi della costiera che da Rosci fino a Palmi precipita a mò di fiordo sul mare, aprendosi qua e là nelle graziose rade del Monacheiu, di Iancuia, del Leone e di altre ancora.

L’Aspromonte crea in questi luoghi alcuni aspetti paesaggistici di immane bellezza e suggestione. I suoi monti, che nei sovrastanti Pianori della Corona, s’adagiano lungo i piani ondulati, e sembrano, nella loro amenità, riposare sonnolenti, dilatandosi di volta in volta in piccoli appezzamenti sparsi quà e là, per lo più coltivati ad orto o lasciati al pascolo, quando sono a ridosso del litorale s’interrompono bruscamente lungo tutta la linea di costa, ed iniziano a  precipitare, talora a breve, troppo breve, distanza dal mare, con salti di centinaia di metri, e i ripidi declivi poco concedono agli spazi pianeggianti, ridotti veramente a qualche fazzoletto di terra, a qualche lembo di scoglio, nelle cui vasche il contadino vi ha pure coltivato, portandovi a forza di braccia la nuova terra.La Costiera è un angolo meraviglioso e poco noto della Costa Viola, lungo i suoi selvaggi dirupi ed i suoi declivi scoscesi, in terre che giudicheremmo improduttive, regno soltanto della macchia mediterranea che vi prospera rigogliosa, ovunque possibile il lavoro dell’uomo, con tenacia e costanza, lungo il corso dei secoli, ha affermato la sua presenza, ricamando infinite scalinate di vigneti a terrazza, e creando tra i loro cammini un paradiso tutto suo, scritto con pietra, terra e sudore. Poche ed impervie le vie d’accesso scampate alle frane ed all’edacità del tempo: noi vi eravamo arrivati uscendo in un luogo ormai devastato dai lavori della ferrovia, anche se non ci meravigliava vedere i suoi dintoni incolti ed inselvatichiti, e stavamo sospesi sui dirupi prospicienti il mare, che si mostrava pieno di luccichii nelle sue trasparenze, e le cui onde appena si avvertivano, e stavamo proprio a ridosso della rada del “Monacheiuâ€, fra le più piccole della costa, sul fianco destro della spiaggia, al cui centro cadeva un ripido vallone, angusto ed impervio, come un monumentale scivolo che veniva giù dall’alto, dove il monte si divideva, ed il cui aspetto si presentava di frequente come dilavato e un po’ dappertutto intasato dalle frane, dai massi, e dagli enormi costoni di roccia che si erano staccati dal monte, e che arrivavano fin sulla spiaggia.

Noi in alto camminavamo come piroettando da masso in masso, da roccia in roccia, facendo attenzione ai precipizi che si aprivano lungo i bordi del monte, affacciati sul cielo, mirando a distanza alcune rasole abbandonate e barcollanti. Avevamo percorso quei sentieri più di una volta, senza mai riuscire a scorgere l’ingresso della nostra grotta, ogni volta fermandoci presso una serie di rasole franate che era arduo attraversare, per non dire maledettamente temerario,  stando alla forte pendenza ed alla totale carenza di validi punti di appiglio: un piede in fallo, una presa mancata, una banale caduta, significavano la fine, il precipitare nel vuoto senza via di scampo, lo sfracellarsi sulle guglie rocciose del monte, e lasciarvi sull’una e sull’altra i brandelli dei nostri corpi.  Avevamo sempre preferito ammirare, con religiosa ed entusiasta ammirazione, quei dirupi di roccia che sembravano emergere sovrani dal mare e volersi arrampicare verso di noi, con le loro cuspidi nerastre e dilavate, ritte verso il cielo, quasi ad andare oltre, fino a sfidare le cime del monte. La sovrana paura di poter precipitare e sfracellarci fra quelle guglie acuminate, delle quali ci pareva di sentire il respiro, rendeva di ghiaccio le membra e le paralizzava: non sapevamo che a breve linea d’aria, nascosto da una macchia, stava l’agognato ingresso della grotta.

Dal punto dove ci trovavamo occorreva portarci oltre il vallone, sull’altro versante di esso, e dunque lungo le rasole girare attorno al fianco del monte fino ad arrivare nei pressi delle rasole franate, quelle a ridosso delle quali tante volte ci eravamo fermati, quindi proseguire per qualche decina di metri fino alla grotta il cui ingresso stava nascosto dalla vegetazione.

Così, una volta fuori dal cunicolo della ferrovia, dopo breve sosta che si rivelò utile per prendere un po’ di fiato, fare le nostre coordinate e guardarci bene attorno, Triulcio si mette in cammino, volta le spalle al mare e prende la direzione del monte, si arrampica per una piccola scalinata di pietra, e poi per un’altra ancora, per finire ben sopra il punto critico del vallone, quindi, laddove era più solido e agevole lo attraversammo, e ritornando verso la costa, risalimmo il costone sud del monte, e girandogli attorno lasciammo il “Monacheiuâ€, per finire sui fianchi incolti dell’ altro versante, laddove precipitava, con le sue scoscese muraglie, direttamente sul mare.

 Proseguendo, talora gli angusti e malagevoli passaggi si aprivano in sentieri più agevoli, fino a che finimmo su un curvone, qua e là delimitato dai soliti dirupi e dalla vegetazione arborea, dove il sentiero, a noi, reduci dalle recenti difficoltà e pericoli, ci era sembrato un’autostrada. E proseguendo ci trovammo, quasi all’improvviso, di fianco all’ingresso della grotta che stava proprio a lato. Non era più grande di una comune porta di abitazione, anzi, bisognava chinarsi un poco per non sbattervi la testa, poiché si chiudeva in alto come l’orecchio di Dioniso. Nell’entrarvi i nostri corpi precludevano il passaggio della luce e dovemmo farci di lato; bisognava stare attenti a non incespicare, perché il suolo era disseminato di sassi, non era tutto in piano, ma presentava frequenti dislivelli. Fatto dunque il nostro ingresso, assuefatti gli occhi all’oscurità, restammo come meravigliati e un po’ confusi: ci aspettavamo di più e di meno allo stesso tempo. Ci colpì un aria leggermente fresca, costante, con un leggero odore di pietra bagnata, al quale subito ci abituammo, perché assai diverso da quello della galleria ferroviaria, meno pregnante, e più accettabile. Dinanzi a noi, in profondità, un vasto ambiente di una trentina di metri, che sul lato destro si apriva poco, subito interrotto dalla parete rocciosa che proseguiva dritta fino in fondo, dove nell’angolo, dai quattro metri in su, sembrava esserci un ambiente buio, che nel nero più denso si prolungava quasi fino a noi, che riuscivamo a scorgere tante cuspidi che si addentravano sconnesse perdendosi nel buio più assoluto, in fondo al quale cadeva la volta del tetto; totalmente diverso il lato alla nostra sinistra dove si apriva una vasta spianata che costituiva la parte più vasta dell’ambiente, e la più frequentata, qui la parete s’innalzava direttamente fino al tetto, e tutto era più limpido e aperto per lo sguardo. La grotta era abbastanza grande, la sua volta era alta almeno una trentina di metri, sopra una spianata che doveva estendersi per almeno trecento metri quadrati. Qui, ci raccontò Triulcio, i pastori erano soliti tenere al riparo le loro capre, e trovare rifugio allorché il cattivo tempo li coglieva sui monti. A suo dire erano secoli che questa grotta era frequentata dai pastori, anche suo padre vi aveva portato le capre, e i suoi prima di lui essendo pastori da svariate generazioni. Di certo la grotta manifestava le tracce di una forte presenza umana, e non tardammo ad averne i più svariati indizi. Il piano di calpestio in terra battuta talora inclinava in ampie conche ed era duro e liscio nei suoi bernoccoli come fosse stato levigato; pietre e sassi stavano disseminati dappertutto, alcuni, anche grossi, dovevano essersi staccati dalla volta del tetto, e ci rammentavano i numerosi terremoti e le varie scosse che si erano verificate nel corso dei secoli e dei decenni. Poi vedemmo, sparsa quà e là, ma soprattutto verso il lato a sinistra dell’ingresso,  residui di paglia secca, e si poteva intuire lo sfacimento progressivo cui andarono incontro i vecchi recinti, da un lato addossati alla parete rocciosa, e dall’altro delimitati da macere e staccionate. In essi trovavano rifugio centinaia di capre e pecore, fermo restando lo spazio in cui riposavano i pastori, ed in cui, un tempo, erano soliti preparare la ricotta ed il formaggio, che forse facevano stagionare e tenevano nello stesso luogo. Adesso invece, tutto testimoniava l’abbandono. Questa parte della grotta, ovvero  a sinistra dell’ingresso, era stato il posto più  frequentato, trovando in ciò ampio riscontro con quanto Francesco ci raccontava. Scorgemmo qualche traccia del legname che era servito per gli stazzi, e che nel corso degli anni, poiché il legno era prezioso, era stato di volta in volta adoperato e consumato, soprattutto per accendere il fuoco, come si comprendeva dai resti di brace e carbone sparsi sul terreno. La mia opinione fu che l’antro, così nascosto a qualsiasi sguardo che provenisse dal mare o dalla terra, così inaccessibile ed allo stesso tempo così prominente sul mare, tanto da sembrare una balconata, dovette servire in svariate occasioni da ottimo  rifugio per non pochi malavitosi, e forse fare da prigione o da base ideale per non pochi sequestri. Chi, se non persone esperte e pratiche dei luoghi, in quelle zone impervie e selvagge sarebbe stato in grado di raggiungere quella grotta?. Era difficile persino ad un elicottero avvicinarvisi, tanto ripida ed impervia era la costa montuosa, che, a parte l’angusto sentiero che le passava innanzi, precipitava a muraglia, aprendosi qua e là sulle macchie di vegetazione selvaggia dai ciuffi sparsi ed abbarbicati alla roccia.

Rammento che durante una colossale caccia all’uomo, la polizia, sicura, e non a torto, che in queste impervie contrade si nascondessero non pochi malviventi, e che fossero prigionieri alcuni ostaggi, decise una battuta a tappeto, senza risparmio di mezzi. Individuata la zona, presto la circondarono disponendo per ogni dove presidi e vedette. Occuparono i Piani della Corona, fin dove s’interrompevano per precipitare verso il mare; qui alcune motovedette stavano di pattuglia, e dal cielo gli elicotteri perlustravano ogni rientranza ed ogni anfratto, facendo rimbombare il frastuono delle loro eliche da rasola in rasola. Quindi decisero di far scendere in mezzo alle rasole degli agenti scelti: il luogo delle operazioni, un vasto anfiteatro di vigneti e giardini a terrazza, dove, a differenza che nei dintorni, il terreno si prestava maggiormente all’uopo: la pendenza era minore, le rasole più larghe, lo spazio più ampio. L’operazione, arduo banco di prova, era appena agli inizi, allorché un agente, nel scendere dalla scaletta pensile dell’elicottero, nel toccare terra mise un piede in fallo, e perdendo l’equilibrio, cadde malamente nella rasola sottostante, fratturandosi una gamba. Ci si rese conto che non era cosa da poco abbandonare uomini, che per quanto allenati e fisicamente capaci e dotati, erano pur sempre inesperti del territorio, in contrade che non concedevano distrazioni o tregue, perché ogni passo si compiva sull’orlo di un dirupo, di un burrone, di un precipizio, e dove ogni rientranza o sporgenza, ogni macchia, si prestava a divenire rifugio sicuro e inviolabile. E non era cosa da poche ore, o di un giorno o una settimana, riuscire a setacciare palmo a palmo quei luoghi, all’apparenza simili, ma assai diversificati anche nella loro stessa struttura, allorché li si vede da vicino, stando sul posto. Ai piedi di ogni rasola, sotto ogni sperone roccioso, ai bordi o negli anfratti di ogni scosceso vallone, in ogni macchia, in ogni sperduta grotta, si sarebbe potuto nascondere un uomo. Nel paese e dintorni corse dunque questa voce, e, anche se la ritengo alquanto credibile, non so dire se corrisponda al vero.

Per quel che ci riguardava ci rendevamo conto di avere avuto la fortuna di una guida esperta e capace, di un profondo conoscitore e amante di quei luoghi, di un uomo che, fino a quel giorno, aveva legato la sua vita al respiro del monte.

Quando fummo dentro la grotta, dopo averne ispezionato il terreno con grande cura e limitatamente alle nostre possibilità (avevamo l’ausilio di una sola torcia, neppure tanto potente e adatta!), tentammo di scoprire il fantomatico passaggio che da quel luogo doveva portare al paese di Seminara. Chiedemmo alla nostra silenziosa e cordiale guida dove si trovasse, ma, con grande sorpresa, Francesco ci disse che non l’aveva mai visto, ma che ne aveva soltanto sentito dire. Così ci guidò in fondo alla grotta, verso l’interno in leggera salita, in un angolo nascosto e buio, ai piedi di una parete non più alta di quattro metri, sopra la quale, così ci disse, c’era uno spiazzo donde un tempo si apriva il famoso cunicolo, che però, al momento doveva essere interrato dalle frane. Il sito era pressochè di fronte all’ingresso della grotta, che ora vedevamo luccicare in fondo come la fiamma di una candela. E notai che un tempo, coloro che abitavano l’antro, in questo preciso angolo avevano costruito una vera e propria scala, da una parte addossata alla parete, dall’altra delimitata da una balaustra, della quale io trovai un pomello biancastro, bello e sagomato a tondo, a due rilievi, il cui diametro inferiore era di un quindici centimetri, e il pomello era fatto proprio a misura di mano, con dell’ottima pozzolana che ormai era divenuta solida come roccia. Non essendoci più la scala, io e Gianni decidemmo di tentare quella difficile arrampicata. La parete cadeva come se fosse stata costruita col filo a piombo, era viscida per la rugiada, e nerastra, ma per fortuna riusciva qua e là ad offrire dei punti di presa e d’appoggio. Lentamente, e non senza apprensione, perché il terreno era in declivio e tutto coperto di sassi di varia dimensione, uno dopo l’altro, lentamente, riuscimmo nella scalata giungendo alla sommità. Lo spiazzo era piccolo, non oltre i venti metri quadri, un rettangolo delimitato per i quattro lati interni dall’oscura roccia, e al centro del piano di calpestio notammo come una depressione del terreno, sulla quale poggiavano grossi massi sparsi disordinatamente e dappertutto. Triulcio, abituato ai sentieri scoscesi delle capre, più che alle arrampicate degli alpinisti, dopo qualche tentativo andato a vuoto, aveva desistito, e aspettava sotto a noi con lo sguardo in alto, e non senza un pizzico di malcelata curiosità, ci chiedeva cosa vedevamo, se avevamo individuato l’ingresso del cunicolo, cosa c’era sopra, e se qualcosa colpiva la nostra attenzione. Comprendevamo la terribile ansia del nostro amico, e di fronte a quella delusione, ammiccavamo, e offrivamo risposte scarne e vaghe, quasi a stimolarlo. Se quello era il luogo esatto donde un tempo si apriva il fantomatico passaggio segreto dei saraceni e dei pirati, esso doveva trovarsi in corrispondenza della depressione che finiva in forma di buca, quasi al centro del piano di calpestio; difficilmente altrove, perché tutt’intorno non v’era altro che roccia. Pur apprezzando quel magnifico riparo, quasi un altare, o un balcone sul resto dell’ambiente, rimanemmo delusi a mirare in silenzio la distesa vuota e sterile dell’antro in fondo al quale luccicava l’ingresso. Il nostro tempo, con immenso rammarico, volse al suo epilogo, non so dire se era stata più forte la delusione per lo stato di abbandono in cui giaceva il posto, o l’emozione per averlo finalmente trovato. Non potevamo evitare interrogativi e perplessità.

Per esempio, nella piccola e graziosa rada del “Monacheiuâ€, la presenza dell’uomo fino a che punto fu vincolata e connessa alla presenza di quella magnifica grotta, e a quella dei vigneti a terrazza che le sorgono vicino?. E allorchè la via del mare divenne un pericolo e una sfida, corrisponde al vero che quel posto divenne un approdo segreto dei pirati turcheschi?. E la grotta fù,  oppure no, uno dei covi donde  quei pirati partivano per terrorizzare le popolazioni della costa?. La natura difende talmente bene chi si rifugia nella grotta e nelle alture adiacenti, che ben difficilmente un qualsiasi esercito  avrebbe a quel tempo potuto avere la meglio su degli uomini asserragliati in quei luoghi, difesi ottimamente dalle scogliere sul mare e dai monti che si elevano alti ed impervi per centinaia di metri verso il cielo.  Come stanare quegli impavidi e feroci guerrieri, ladri imperterriti, senza fede ne morale, e pronti a tutto pur di salvare le loro anime dannate?. E se la credenza popolare aveva fatto un mito di tale luogo, forse non senza una certa confusione, esistendo in tali contrade altri simili posti con grotte grandi e piccole, ciò era dovuto anche al fatto che erano il regno di disperati e povera gente, e pochi, e talora di rado, vi si avventuravano, mentre col tempo, molti si diedero il vanto di avere visitato e di conoscere quei posti; così ognuno raccontò a suo modo, perché, forse, in una natura così lineare e allettante nel suo aspetto, così selvaggia e frastagliata dal precipitare dei monti,  si confuse questa con le altre grotte delle rade vicine e, facendo di tutto un fascio, si creò sui luoghi e sulle cose come una sola grande ala di mistero e di leggenda.

Ci avevano assicurato che al centro della grotta c’era un’altare in pietra, a forma di tavolo, scomparso solo pochi decenni addietro, prima della seconda guerra mondiale, ma chi se lo sarebbe rubato, o lo avrebbe distrutto, e per quale motivo?. Ma forse esiste ancora inviolato all’interno di un’altra grotta, forse non fu mai esistito.

I pastori, e diversa altra gente accorsa apposta, avrebbero trovato le armi e gli scudi dei terribili saraceni, ma quando mai se ne vide vestigia alcuna nei dintorni?. La risposta, la spiegazione del mistero, è talmente semplice e sconcertante da farci rimanere di stucco. Nessuno, dice il popolo di coloro che sanno, vuole mostrare le armi, gli scudi, il vasellame, perché si va in galera, inoltre, chi li ha posseduti li ha dati via per pochi soldi, e per quanto concerne l’altare, chissà che i suoi pezzi non giacciano abbandonati in una vecchia capanna diruta e sperduta in mezzo ai vigneti, o in qualche stazzo fra le montagne. Chi può dirlo?. Nomi non se ne possono fare!.

Il detto dice: “Vox populi, vox deiâ€, più per significare che esiste sempre un fondo di verità nei detti e nei racconti popolari, piuttosto che per affermarne la veridicità assoluta. Ed in effetti, nella brevissima ora che trascorremmo nella grotta, nulla trovammo che potesse smentire quanto la gente raccontava, e anzi, numerose erano le tracce lasciate dall’uomo, sia per il passato più recente, sul quale lo stesso Triulcio ci aveva fornito testimonianza, che per quello più antico, nel quale collocherei i resti di quella scala alla quale apparteneva il pomello da me trovato. Poi, i tremendi terremoti che afflissero queste nostre contrade, e penso a quello immane del 1783 e a quello del 1908, alterarono e mutarono l’aspetto di non pochi luoghi, provocando nelle grotte frane e distruzione; e nella nostra in particolare, che però rimase ancora a lungo un ottimo rifugio per i pastori. Oltre alle calamità naturali, sopratutto nel nostro secolo, il progressivo spopolamento di questi luoghi così impervi, il graduale abbandono degli ultimi vigneti rimasti, ovvero quelli più prossimi al mare, che offriva un’ottima via di trasporto, contribuirono non poco alla desolazione di queste contrade.

A malincuore, e rinviando ogni altro interrogativo per i giorni a venire, lasciammo la grotta e prendemmo la via delle rasole, che Triulcio conosceva, e sulla quale si sentiva finalmente a suo completo agio. Ne mai vidi uomo più vicino alle capre di lui, che ben dimostrava di essere figlio di rudi pastori, e nato e cresciuto in quei monti, dei quali, passo a passo, man mano che si andava, divenuto più  loquace, ci soccorreva dicendoci i nomi dei vari posti,  perchè suo padre era solito portare il gregge da quelle parti. Dopo la sua morte, avvenuta di recente, Francesco non aveva più messo piede sul monte, e da allora, così ci disse, era questa la prima volta. Aveva un modo strano di esprimersi, quasi a senso, per piccole verità nascoste, ed adoperava il dialetto a modo suo, con termini impropri, parole storpiate o lasciate a metà, con tale fatica nei lunghi discorsi, che era arduo per lui connettere più di due frasi alla volta. Ma era esplicito, chiaro, parlava con il cuore di una realtà di pietre, di vento, e si può dire che solo adesso, dopo un po’ di sconcerto, noi iniziavamo a sentire e a comprendere con quale emozione il nostro amico ci parlasse, e cosa avesse provato e provasse trovandosi in mezzo a quelle rasole, a camminare lungo gli stretti sentieri, a lato dei precipizi e dei burroni, come sospeso a mezz’aria tra la terra ed il cielo, abbracciando entrambi.

“St’era a terra di Ciccu che finiu i peculi più di deci anni. N’amicu ‘i me patri, ca crescìiu a mmìia e a mme frati.

D’isto loco accà, proprio accà, jeu jettava petri a mari, contra i barchi. Li facìa fujiri. Na vota mi scupriru e menne dissero. Jèu ridìa, jettava pìuni.

Veniti accà!

Veniti accà!

Nun putìanu nenti!.

Ciccu scannau tutti i peculi.

Su figghiu moriu into u monti.

Scannau i peculi.

Cadiu ìani.

U truvaru suttu suttu. Rottu!. Spezzatu!.

I peculi so toste.

Jeu nun li vurrìa.

Ciccu senne fujìu.

Tutte ammazzau, pe’ pochi sordi.

A’ assassina n’ci ruppiu a capa. A massacrau!.

E nun ne vose suspiri!

Fugghiu d ‘u munti.

Ma u munti nun avìa curpa!

U fantasma ‘i so figghiu ‘u currìa.

Murìu a casa. Solu!. Na sira.

U truvaru ca durmia: sedutu a nu tavulu.

Accussì!. Propriu accussì! Durmìa!

S’assunnava a su figghiu. Avia fattu paci c’u fantasma, e chijiu su rubbau!â€.

Triulcio camminava e raccontava, e ci sorprendeva con questi suoi pensieri, buttati quasi poco alla volta, meditati come seguendo un discorso più intimo, durante il quale  riallacciava il suo legame figliale con il monte, perché il monte non tiene colpa. Quel legame che sembrò spezzato il giorno che suo padre, come successe al figlio di Ciccu, precipitò nel vuoto mentre inseguiva una pecora disubbidiente.

I peculi su accussì: toste!

Disse ad un tratto:

Jeu nun le vurria!

Tutti ‘i scannava!â€.

E chi poteva dargli torto? La capra è diversa, più ubbidiente, più disciplinata, a suo modo riconosce il  padrone e gli risponde, ma la pecora… I nostri pastori lo sanno e non vogliono perdere tempo, fin da piccole le azzoppano senza pietà, e noi guardando i loro greggi le vediamo andare lente, e barcollanti camminare su tre zampe, una a fianco all’altra come a trovare fra esse un bastone su cui appoggiarsi. E le stà bene!

E tenendo dietro a Francesco le cui parole ancora una volta ci prospettarono i grandi rischi che si hanno nel monte, donde non bisogna mai prendere troppa confidenza, ma stare sempre sull’erta e non distrarsi, pur mirando sotto sotto tra le onde del mare i riflessi dei fondali, e l’elevarsi degli scogli bruni e nerastri dilavati dalle acque che salgono dritti con le loro massicce guglie fino a toccare le rasole, anche noi riflettevamo su questa nostra esperienza, e sul nostro amico e la sua solitudine, che vedevamo confondersi con il silenzio del sole al tramonto. E la bellezza del monte adesso ci faceva un po’ paura, mentre lo guardavamo, potente sulle onde del mare, salire verso il cielo tra cuspidi e dirupi per creare le sue ultime ombre.

Polifemo doveva abitare in questi luoghi: come Triulcio che scaglia i massi per spaventare i barcaioli della domenica, Polifemo si accanisce contro la nave di Ulisse!.

Un uomo piccolo, figlio di nessuno, e un uomo grande, figlio di un Dio, che la immensità della natura rende simili, che il trascorrere dei millenni non ha mutato, che la nostra fantasia di vecchi salottieri, persa dentro l’ipocrisia del mondo, non riuscirà mai a comprendere, ma che proprio per questo, per il loro anonimato, per il loro star fuori, per la loro vita di terra e di sassi, hanno per destino quella voce che tramanda parole che divengono leggenda e mito.

N.B.: Questo articolo venne scritto nel 1986, ovvero subito appresso i fatti che narra; venne poi ripreso e corretto ai nostri giorni,  e fa parte di un più vasto programma di lavoro.

Esso viene concesso all’Archivio  Storico Fotografico Bagnarese in via del tutto transitoria, e purché il suo uso non sia a scopo di lucro.

IN FEDE:

Bologna 08 Feb. 2002

Alessandro Carati.

Post Author: Gianni Saffioti