Tra gastronomia calabrese e cultura popolare, l’ultimo libro del prof. De Luca

Tra gastronomia calabrese e cultura popolare, l’ultimo libro del prof. De Luca.

 L’ultima opera del prof. Michele De Luca ci conquista struttando la nostra golosità tentandoci con una prelibatezza della cucina calabrese, una specialità di Catanzaro. Insomma ci prende per la gola.

Duecentocinquantuno pagine di storia, cultura popolare, tradizioni regionali, nomi, foto, ricerche storiche, dialetto e personaggi come Dante e il Rohlfs, fanno di questo libro, unico nel suo genere, un modello su come affrontare e divulgare la Calabria nel mondo. Edito da Laruffa, il libro era presente a inizio dicembre in anteprima alla fiera di Roma, (foto Laruffa) e da una settimana è in vendita delle migliori librerie e sui siti specializzati on line.

L’autore ci autorizza a rendere pubblica una pagina del suo operato come esempio di lavoro per eventuali altre ricerche su temi simili. Storie semplici di prima mano catturate da un passato che oramai non esiste più ma che fa parte della storia calabrese.

Prossimo appuntamento dovrebbe essere finalmente la pubblicazione del suo studio sulla pesca del pescespada a Bagnara.

                                                                                              Sig.ra Angiulína Trapássu

Anche ‘a zzâ Angiulína Trapássu, morzeḍḍára, della bettola ‘A Grotta Azzurra, metteva il calderone sulla strada, in modo d’attirare, con il profumo, la gente di passaggio e, per non scendere le scale verso la cucina, teneva sotto il braccio 5 o 6 porzioni di pítti, pronte per essere riempite del morzéḍḍu. All’interno del bugigatto-lo vi era, poi, un mobile con svariati mazzi di origano buttati sopra, che sarebbero stati utilizzati, nel futuro, per aromatizzare la pietanza, la cosiddetta provvísta.

          Il taglio della pítta in cinque porzioni (e in vari pezzettini) era fatto, anche, per una comodità del cliente, poiché in tal modo poteva mangiare ‘u morzéḍḍu senza ungersi troppo le mani e gli indumenti, perché se il pezzo di pane fosse stato troppo pieno si apriva.

          In pratica, se il cliente richiedeva la pietanza da consumarsi prendendola con le mani, gli si portava, nel piatto il taglio grande della pítta, con dentro il morzello; se invece desiderava consumare la pietanza direttamente nel piatto, gli veniva servito il morzello nel recipiente, con vicino 4 o 5 pezzi di pítta.

          Oggi, che siamo abituati a mantenere l’igiene in ogni luogo, questo racconto ci procura una certa insofferenza, ma se si vede la cosa da un punto di vista storico-antropologico ci si rende conto che, nel passato, non vi erano le comodità del presente e situazioni del genere erano ricorrenti. Nelle taverne, peraltro, non essendoci l’acqua corrente, gli osti utilizzavano una grossa scodella di terracotta, ‘a límba, per sciacquare le stoviglie (bicchieri, piatti ed altro), le forchette e i coltelli.

Questa, colma d’acqua, veniva sistemata, un tempo, in un posto appartato della bettola (e nelle case in un angolo della cucina). Era utilizzata, anche, per sciacquarsi le mani. Di tanto in tanto l’ácqua d’a límba, quando prendeva una colorazione cupa, era “rinnovata”. Considerato che l’approvvigionamento comportava lunghe camminate fino alla fontana pubblica, o ad una sorgente, si cercava di allungare il più possibile i tempi del ricambio.

          L’acqua sporca, tuttavia, non da tutti i bettolieri era gettata via. Alcuni la davano a chi la utilizzava per alimentare il maiale, arricchendola con l’aggiunta di un pastone. L’acqua, infatti, conteneva residui di cibo e, soprattutto, non aveva detersivi!

          Qualche volta si sentiva dire: Vídi s’é bbóna l’ácqua d’ ‘a límba, o va’ cangiáta?  ‘Vedi se è buona l’acqua della scodella, o va cambiata?’ E la risposta, sarcastica, era: Si!… é bbóna ppo’ peṭṛusínu!  ‘Si! …è adatta per annaffiare il prezzemolo!’, per dire che era acqua concimata.

          La lordura di quest’acqua era tale che si diceva di persona ingrata: ‘On s’ammérita máncu l’ácqua d’ ‘a límba! ‘Non si merita neppure l’acqua della scodella!’, ovvero nessuna considerazione. Oppure, con commiserazione: Si ‘u vidéra moríra ‘e síta ‘on nci porgéra máncu l’ácqua d’ ‘a límba! ‘Se dovessi vederlo morire di sete non gli porgerei neppure l’acqua della scodella!’.

Estratto dal sito Italy 24

Un piatto, prelibato per il palato catanzarese e non solo, definisce quell’eredità storica che si fonde con la territorialità, con ricette che si tramandano di famiglia in famiglia. Citare il “morzello”, che, come noto, è costituito da frattaglie di vitello tagliate a pezzetti suscita grande interesse, poiché la sua degustazione rientra quasi in un rito consolidato ormai da anni. Il professor Michele De Luca, scrittore e linguista, già noto per le sue numerose opere dedicate alla Calabria, ha voluto ancora una volta coinvolgere il lettore con un’opera particolare.

Con “La storia d’o morzeddu catanzarisa” “racconta” il morzello, il re della cucina tipica catanzarese e lo fa con particolare ricchezza addentrandosi nei meandri della storia del prelibato piatto. Non tralascia la preparazione, come si gusta, parla di chi “’u morzeddu” lo cucinava nelle capienti “coddare” e soprattutto parla dei luoghi dove veniva cotto, le tradizionali “bettole” o “ putiche” che erano sparse per tutto il territorio della città, dove ci recavamo anche la mattina per poterlo assaggiare, nonostante la sua particolare “piccantezza”.Quel piatto povero e di strada, ma che probabilmente ha fatto molta roba “di strada”, tanto che del morzello trascrive anche la parte letteraria, citando chi ne ha parlato e scritto o chi, ancora, lo ha descritto in versi. Nel suo testo non mancano le voci dialettali che, si potrebbe dire, insieme al morzello sono l’anima dell’opera. Ed è così che “i vineddi”, “i puticari”, “l’addura”, danno vita ad un dialogo che ben si sposa con il “re” della cucina tipica catanzarese. Perché il morzello è di Catanzaro! In questa fitta narrazione non tralascia un elemento primario che accompagna il morzello, rappresentandone la perfetta unione: pitta! Quel pane tradizionalmente cotto a Catanzaro a forma di ciambella sottile e grossa con poca mollica, unione di due grandi tradizioni ben assortite e apprezzata da chi assaggia il morzello, con tanto sugo, tanto da sporcarsi anche la faccia.

De Luca, come già espresso in altri libri, fa una ricerca accurata, con curiosità, fatti inediti raccontati da chi li ha vissuti, si sofferma su una parte del territorio, non mancando di spaziare in altri contesti con l’intento di far conoscere le particolarità della Calabria. Non da meno “Vermituri”, il libro di Silvestro Bressi, storico tradizionalista, che aggiunge alle sue opere letterarie la particolarità data dalla tradizione gastronomica. Sulle lumache svolge un’attenta ricerca che spazia su vari argomenti, non mancano nel testo quelle singolari etimologie e la ricerca di alcuni lemmi della tradizione catanzarese. A Santa Maria, frazione del capoluogo calabrese a cui appartiene Bressi, le lumache sono molto pregiate ei “vermiturari” (raccoglitori di lumache) sanno perché, ma custodiscono il segreto. Bressi inserisce “i vermituri” in vari contesti, nella letteratura, nella poesia, nell’arte pittorica e scultorea, conferendo alle lumache quella preziosità che si aggiunge alla tradizione della cucina tipica. Ricercatissime e numerose in determinati periodi, le lumache fanno parte di quei piatti catanzaresi di primaria importanza, chi scrive ne annovera anche le ricette, alcune conservate e tramandate dalle famiglie. L’ opera, presente in Fiera, si potrebbe dire che rappresenta l’anima calabrese, l’identità di un territorio, che è frutto della storia, della cultura e delle persone che lo vivono appieno.

 

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