Anna Malerba, le bagnarote e il delfino alla ghiotta

Anna Malerba, le bagnarote e il delfino alla ghiotta

Chi ha letto l’ HORCYNUS ORCA di Stefano D’Arrigo, sa che dalle pagine da 140 e 150 e poi alla fine dopo pagina 1200 si parla delle bagnarote che cucinavano il delfino alla ghiotta.

Anna Malerba, giornalista della rivista La Gola, mensile di cibo edito dal 1982 e fino al 1988, sfrutta il libro per parlare di questa ricetta e ricamarci sopra com’era costume al tempo e come lo è ancor oggi purtroppo di immaginare, inventare e anche scrivere fantasticherie sociali sul mondo bagnarese.

Non valuto l’articolo lasciando al lettore il gusto di apprezzarlo o meno senza alcuna indicazione. Sotto le pagine inerenti del HORCYNUS ORCA di Stefano D’Arrigo dove viene descritto il tutto.

Per chi non la conoscesse ecco a grandi linee la semplice ricetta della ghiotta che oggi è apprezzata con il pescespada.

In una padella fate soffriggere la cipolla nell’olio d’oliva, aggiungete i capperi e le olive snocciolate e dopo qualche minuto la salsa di pomodoro e il prezzemolo. Disponete nella padella le fette del pesce spada e condite con sale e pepe, fate cuocere 15 minuti circa a fiamma bassa, bagnando col sugo di cottura.

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“Erano tutte lì, dietro al cordone: carogne e carcasse che aveva avvistato

sotto il sole lungo le marine, i segnali scabrosi che sembravano

trasmettergli, morte per vive, fetori di fera e fetori di fame sborianti per aria,

impestamento e infestamento, manna e minna, preveggenze di femminote e

avvertenza di vecchio spiaggiatore: tutte quelle avvisaglie, le trovava

incalcate fitte fitte sullo scill’e cariddi, in fondo al suo viaggio, come in un

culo di sacco, nella loro ventre madre.

Le reste di mosciame che infestonavano di giorno porte e finestre,

secondo il visto cogli occhi del vecchio di cui ora non dubitava

minimamente, erano la parte dei sudori freddi dentro al cordone, mentre la

parte dei sudori caldi, del fumichìo e dei fumenti, quella era la fera fresca

che le femminote cuocevano in quel momento a levapelo, era la cottura

stomacante che aveva un focolaio dietro ogni porta: fera scasata, fame incasata.

La cuocevano a ghiotta, che almeno a parole, almeno alla vista, sembra il

modo meno barbaro di cuocerla, ma di fatto, al gusto in bocca, si rivela per

barbaricissimo. Perché, succede questo: in principio, al primo bollìo, la fera

si tiene ancora assai bene camuffata nel testo di terracotta, si potrebbe

scambiarla persino per tonno o palamito o altro di consimile, profuma,

lusinga, fa venire l’acquolina in bocca. Però, lei ancora non c’entra, è solo la

ghiotta che la tempesta con le sue conze di aromi e sapori fortissimi: cipolla

e sedano, olive e capperi salati, pomodoro e peperoncino. A un bollìo o due,

lei non si risente alla cottura, sta sotto alle conze, stordita dall’aceto dove

prima è stata messa a macerare, a gettare fuori l’umore selvaggio

dell’incarnato bestino. Incotturiandosi però, sfuria fuori scattosa dai vapori

del testo, ha tutti i connotati ribellati e impesta l’aria col fetore,

incorporatosi in un tutt’uno arrabbiato con l’aceto e con le conze che lei ha

alterato e asservito a sé. È chiaro infatti che l’aceto, invece di spuntargli le

punte più velenose delle corna, gliele ha al contrario affilate come lame

taglientissime, e il mazzo di conze che dovevano strozzarla coi loro sapori

ardenti e i loro aromi ghiotti penetranti, non solo non l’avevano sconzata

minimamente, ma l’avevano per giunta impotentita, degradandosi al suo

contatto, alterando la loro essenza onesta e genuina e pigliandosi tutti di lei,

del suo gusto selvaggio spalmato di sciroppo, come se cipolle e sedani,

olive e capperi, pomodori e peperoncini, fossero stati concimati col suo

sterco di viva e con le sue ceneri di morta.

Succedeva sempre questo con la fera conzata a ghiotta, ma le femminote,

nulla di strano che la preferissero precisamente così: impotentita, forte del

suo e del forte della ghiotta.

Si erano dilettate sempre di fera e anche di verdone, anche in epoca di

pace, in tempi di bontempo: sembrava allora che se ne cibassero per farsi il

palato e abituare lo stomaco a quei veleni, allo scopo di non morire

avvelenate quando, prima o poi, non si tratta che di tempo, per guerra o

carestia, per non morire di fame, sarebbero state costrette a inghiottire quei

veleni, quel tossico. Ma si poteva giurarlo che a quelle eccentriche la fera

gli piaceva in sé e per sé, non per farsi il callo, pensando da quelle

Salomone che sono, oggi per domani, alle male tempora che vengono

sempre, correndo a precipizio, per la gentarella giornatara: anche per questo

andavano famose infatti, non solo per il saliare senza pagare dazio e il

sopraregnare sopra l’uomo, anche per il loro gusto appassionato di cervello

e ventresca di fera.

I mariti, sembrava che varassero apposta per quello, per procurargli alle

loro donne quei bocconi preferiti, quasi fosse dovere di sudditi per regine. E

quanto a loro, si sforzavano di non essere da meno. Essi, tanto per dire,

erano quelli che in piena posta, alla luce del sole, s’incalmieravano la bocca

di spada, quando ancora il meschino si contorceva negli spasimi mortali,

tassellandolo come un mellone, un cuneo di carne appeso alla punta della

traffinera, zampillante di sangue caldo e fumante. Per essi, specie di

incrignatori di mestiere, doveva essere quello l’utile bello: mettersi sulle

labbra e farsi sangue di quell’ultima goccia di vita con cui l’impavido

minchionello resisteva ancora alla morte.

Ma ai mariti, nemmeno a loro gli schifava la fera. Del resto, non

avrebbero potuto altrimenti tenere testa a quel terribilio di femmine, perché

in mancanza di ostriche o di aragoste, avevano uno stretto bisogno di quei

bocconi forti e pietrosi per addobbarsi la spina dorsale e addobbargli poi i

fianchi alle loro mogli.

Femminote e fere, nei caratteri, in tutto, si trattavano, le une con le altre,

come si meritavano, e forse c’era del vero in quello che sosteneva don Mimì

Nastasi, che cioè erano intrinseche e avevano lo stesso sangue, perché

discendevano tutte e due, per gradi, dalle sirene. Era meraviglia se si

trattavano a manica larga: mangia che ti mangio, carne delle mie carni?

Ma quelli erano tempi passati. Al presente, lì in atto, gli bastava il fiuto

per convenire, col visto cogli occhi del vecchio insoldatato, che quella non

era aria del semplice boccone di capriccio, ma aria piuttosto del boccone a

sciala popolo, della fera, in altre parole, mangiata col coltello della fame alla

gola, per amore o per forza.

Per quanto deisse, per quanto magone e piratesse, nemmeno le

femminote la potevano apparare con le mani la fame di certe carestie, la

fame di certe guerre. E dovunque sia, anche lì, nel paese delle Femmine,

quando cuoce carne di fera, e cuoce a quel modo, testo per testo, a levapelo,

cuoce in primis simbolica: cuoce nel quaglio del suo massacrante stillicidio,

cuoce e consuma il suo vaticinio.”

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