Le prefiche bagnarote nel nuovo libro del prof. Michele De Luca

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Le prefiche bagnarote

nel nuovo libro del prof. Michele De Luca

“Silvestro Bressi il demologo dei “Bassi” di Catanzaro

Luglio 2020

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Nel ringraziare il Cav. Silvestro Bressi che ci ha omaggiato dell’ultima fatica letteraria del prof. Michele De Luca, scopriamo che le prefiche più note della Calabria erano le bagnarote che arrivavano  anche a Catanzaro per piangere i morti. Nonostante  le donne di Pizzo, prefiche anche loro famose, fossero molto più vicine a Catanzaro, si preferifa chiamare quelle di Bagnara anche per il fatto che le le donne bagnarote, le viaggiariche, erano abituate ad andare in giro e fare lunghi percorsi con i mezzi di trasporto più disparati. Sul  libro, dedicato all’appasionato studioso delle tradizioni popolari catanzaresi Silvestro Bressi dell’associazione Calabrse di Filatelia e Collezzionismo Vario di Catanzaro, pagine bellissime per alimentare i ricordi e la memoria della cultura popolare Calabrese.

CATANZARO. LA MORTE: USANZE E CREDENZE POPOLARI.
“LE PREFICHE”.

estratto da Calabria Mystery di Luciana Loprete

L’aspetto più vistoso del triste evento, ma anche più intenso di significati, era sicuramente il lamento funebre o piagnisteo, affidato un tempo alle prèfiche di professione oppure ai familiari più intimi dell’estinto e riservato, ovviamente, alle donne. Le piangenti più abili e più rinomate erano le Bagnarote e le Pizzitane; ma anche altre, di altre contrade della nostra regione, non erano da meno.
Comunque, quando il morente esalava l’ultimo respiro, succedeva già una grande baraonda di voci, di gridate, di esclamazioni, di visite, di andirivieni.. in quella casa, come se la morte si fosse presentata eccezionalmente strana, inattesa, improvvisa. Grida disperate dei parenti si udivano per tutto il vicinato; le donne, sconsolate, sciolti i capelli, intonavano i “trìvuli”, cioè i lamenti di rito, secondo un tradizionale tono e ritmo, atti a commuovere i presenti. Si lodavano le virtù del defunto: “De li mastri era lu mègghiu: facìa li cosi senza modèllu”; se ne esaltavano il valore, la bontà, l’importanza della sua esistenza nella famiglia e nella società: “E comu ti nda jìstì, senza mancu ma mi saluti, cuvertùra de la casa mia”, in cui “cuvertùra” risulta così intensa di significato da assurgere a valore estremamente poetico. Alcune frasi venivano ripetute a ogni chiusura strofica di un piagnisteo, e venivano, perciò, dette “rèpitì”, che conferivano una particolare musicalità a tutto il lamento.
La perdita di un congiunto, unico sostegno valido della famiglia, veniva lamentata così: “Giùdicia di l’àngiuli, chi stai supra lu suli, t’hai pigliatu ‘stu giuvani chi lassa li soi suli”.
Nel Lametino sono stati raccolti numerosi “trivuli”: “Era vinùta ppe te vidìre: scura e amara mi nde fai jìre. Era vinùta ppe te truvàre: scura e amara me fai votare”.
Oppure: “Cchi mi vìnna a mìa! Non mi resta nenta. Comu fàzzu senza ‘e tìa, comu li pàssu ijomàti mei?”
Le prefiche, in genere, piangevano a pagamento e con lacrime vere, strappandosi anche i capelli, per ben riuscire nella parte; ma di solito, non avendo neanche conosciuto il morto, intonavano “trìvuli” valevoli in ogni occasione: “E non ti vìu cchiù trasìra de ‘ sta porta, com’eri, bèddhru e mmàmmita, da càpu ‘nzìna i pedi”.
Alle prefiche potevano a volte far eco o dare risposta anche le donne conoscenti dell’estinto “T’avìa portàtu ‘u mèdicu e l’acqua a lu vacìla: non ci abbisognàu ‘u mèdicu: ‘u mala fu crudèla!”
Le frasi, così realistiche nella loro rozza espressività popolare, suscitavano il pianto, ma spesso anche il riso dei presenti meno toccati direttamente dal lutto.
Si racconta, ad esempio, che una donna, finito di friggere le polpettine di carne che solevano tanto piacere al marito, si accorse che questi, nel frattempo, era morto all’improvviso. Fu un momento di comprensibile dolore e di confusione, per lei; la quale non sapeva che urlare quanto le passava per la mente e per il cuore, in quel momento. Il vicinato ed i parenti si precipitarono nella sua casa per consolarla e sostenerla in quella terribile circostanza. La vedova, seduta che si fu accanto al feretro ebbe modo di notare che il suo gatto di nome “Mondo”, approfittando della situazione, andava e veniva dalla cucina con in bocca una polpetta alla volta: “Eh, Mundu, Mundu! – disse piangendo – Comu t’i stai fhuttèndu ad unu ad unu”, riferendosi, ovviamente, alle polpette, che, nel nostro dialetto, diventano maschili “i pruppètti”.
Le cose, ora, sono naturalmente cambiate, in Calabria. Le prèfiche sono scomparse, il pianto è più frenato, le frasi più laconiche e controllate, il dolore, fattosi forse più intenso, ma anche più consapevole della ineluttabile caducità della nostra vita, viene espresso con atteggiamenti meno teatrali e con più rassegnazione.

(S. Bressi)

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