Le bagnarote di Giuseppe Josca. Le vedemmo scomparire, inghiottite dal buio e dal mare.

Le bagnarote di Giuseppe Josca.

Le vedemmo scomparire, inghiottite dal buio e dal mare.

C’era una volta il Sud è un libro bellissimo di Giuseppe Josca di qualche anno fa, edito da Rubettino, un capitolo in particolare attira la nostra attenzione, “Nella terra delle donne” dove si parla delle bagnarote e a loro si rende giustizia e merito di episodi dove preferiscono gettarsi in mare al posto di consegnarsi alle guardie, durante il contrabbando del sale. Negli anni 50 un bagnaroto aveva scritto esattamente l’opposto, ovvero che pur di portare il sale oltre lo stretto,  avevano ceduto sessualmente ai ricatti delle guardie. Ma si sa la memoria è corta e tutti dimenticano e celebrano ancor oggi le furberie del nostro bagnaroto.  Libro da comprare assolutamante.

( C’era una volta il Sud, e in quel Sud, “profondo” più della Fossa delle Marianne, nei primi anni ’60 si è immerso, in disincantata apnea, l’inviato Giuseppe Josca, riemergendone con tante storie d’un’unica storia ancora irrisolta: terragni fraticelli predestinati alla santità, attrici di gran nome fattesi casalinghe per amore, reduci proclamati eroi per un errore d’ortografia, grevi carbonai diventati eredi miliardari di ras etiopi, sapienti poeti che non sapevano leggere e scrivere, rompicapi archeologici, tesori veri, fortune fasulle, e molto altro ancora. Racconti, più che cronache, di “ordinarie singolarità”, senza gli orpelli dell’epopea stracciona né le cianfrusaglie del colore locale; dettagli d’una foto d’epoca magari col tempo ingiallita (sembrano passati anni-luce, invece si era appena all’altro ieri), ma non al punto di aver perso ogni capacità d’intrigare ancora; tessere d’un puzzle variamente combinabili per rintracciare, comunque, il profilo d’un mondo sospeso fra troppo vecchio e troppo nuovo. “…Si può pensare con nostalgia, con tenerezza, al piccolo mondo antico che non c’è più. Però senza rimpianti. Perché anche questo è il segno che il Sud cambia, cammina, magari inciampando e zoppicando ogni tanto…”. )

 

«Ciò mi fa venire in mente un incredibile fatto di cui fui testimone anni fa», intervenne con un filo di voce Don Agostino, un prete così minuto che lo si sarebbe potuto scambiare per un chierichetto, non fosse stato per la sua spropositata e candida chioma. Senza fiatare per non disperdere col nostro respiro le sue parole ci disponemmo ad ascoltarlo.

«Una sera», sussurrò, «nascose dietro una scialuppa di salvataggio del traghetto col quale tornavo da Messina vennero scoperte due bagnarote, con dei grossi sacchi di sale. Vedendosi perdute cominciarono a protestare: a chi facevano male mentre il sale marciva sulle spiagge della Sicilia? I finanzieri non volevano sentir ragione. L’accusa di contrabbando, la macchia sul certificato penale parevano inevitabili. Intanto in coperta si era raccolta un po’ di gente. E fu approfittando della confusione che le due donne scavalcarono il parapetto e si gettarono in mare, tenendosi stretta la mercanzia.

Le vedemmo scomparire, inghiottite dal buio e dal mare. La gente urlò, le guardie promisero il perdono. Tutto inutile. Erano tempi brutti, c’era la guerra, luci non se ne potevano accendere. E comunque, sull’abbrivio, il ferry-boat era già andato un bel po’ avanti. Il comandante non poté fare a meno di lanciare l’allarme e continuare la corsa, mentre io recitavo, in ginocchio, le preghiere dei morti».

«Difatti chi poteva pensare», continuò Don Agostino dopo aver ripreso fiato, «che quelle sciagurate avessero una minima probabilità di salvezza? E invece dopo un’ora o due, sfinite e ansimanti, raggiunsero la costa calabrese, soccorse dai pescatori che le avevano udite piangere e imprecare. Nei pugni stringevano ancora i sacchi del sale, vuoti».

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Nella terra delle donne

Bagnara (Reggio Calabria). All’arrivo degli ospiti Don Cosimo si era affrettato a licenziare i fattori con i quali stava discutendo i complicati affari dei suoi tremila ettari di terra. C’era la luna piena, una tiepida brezza veniva dal mare, i servitori portarono vassoi di rosolio fatto in casa con essenze di cedro e di mandarino. Io contemplavo la mia macchina fotografica, o quel che ne restava dopo che si era inopinatamente imbattuta in una delle terribili donne di Bagnara: puntare l’obiettivo e vedermela addosso era stata questione di un attimo.

«Eh, come vi capisco», disse il barone Gaspare D. lisciandosi gli autorevoli mustacchi neri.. «Queste benedette bagnarote le guardo e le studio da trent’anni. Èvero, sono scontrose e selvagge, hanno sette vite come i gatti. Ma che volete, non mi sento di condannarle. Con tutto il rispetto per le nostre consorti, guardiamole spassionatamente. Hanno contegno, fierezza, portamento, ma i loro occhi possono incendiarsi di lampi che mettono i brividi. E allora si capisce perché, appena nel tempo dei tempi la loro fama cominciò a diffondersi, i corsari non diedero più tregua a Bagnara. Scoprirono però che quelle bellissime creature non erano affatto remissive: messe da parte le arti sottili della malizia femminile, non esitavano a ricorrere a mezzi più persuasivi.

E gli uomini, direte, cosa facevano? Qui sta il punto. Molti degli uomini di Bagnara sono pescatori; restano in mare per mesi, ed è già una fortuna se al ritorno non devono rimettersi in cammino in cerca di lavoro. Per troppo tempo le donne sono rimaste sole, a mandare avanti la casa e i figli e a difendersi dai pericoli e dalle carestie. Per necessità sono diventate sempre più forti e indipendenti, e adesso chi le convince a fare marcia indietro è bravo».

«E di cosa vi meravigliate?», lo interruppe Pasquino B., insegnante di storia in un liceo di Reggio. «Sulle coste e le montagne della Calabria ci sono le impronte degli antichi greci. Voi mi chiederete cosa c’entrano i greci. È presto detto. Anche loro furono emigranti. Lasciavano la terra natale per cercarne una più accogliente, e la trovarono qui, oltre il Mar Jonio. Pensate a Sibari, a Riace, e soprattutto a Locri, che è un caso speciale. Sì, perché a far crescere e prosperare Locri furono le donne, tanto per restare in tema e far capire quanto bisogna andare indietro nel tempo per spiegare il ruolo femminile in certe nostre province.

Nel locrese il fenomeno nacque a causa delle frequenti guerre del periodo ellenico. I maschi restavano per periodi interminabili lontano da casa, e molti sui campi di battaglia ci morivano. Così le mogli, le vedove, le zitelle senza speranze erano costrette ad arrangiarsi. Magari anche supplendo all’assenza dei propri uomini con l’aiuto di volenterosi coadiutori, non so se mi spiego. Ma solo, si capisce, per garantire la continuità della stirpe che rischiava di estinguersi. Però ai bambini non veniva dato il nome paterno, del padre naturale voglio dire, anche perché in quel caso, con l’andirivieni che c’era nelle camere da letto, non si sapeva quale fosse. Ad essere trasmesso era il nome più nobile della madre.

A farla breve a Locri si affermò un vero e proprio matriarcato. Non per nulla fu chiamata “la città delle donne”. Erano loro a comandare, l’autentico sesso forte. Per carità, lungi da me l’idea di fare paragoni con quel che accade nella Calabria di oggi, a due millenni e mezzo dagli eventi che ho ricordato. Ma con la vita dura che le calabresi sono spesso costrette ad affrontare, è probabile che qualche traccia dell’antico vigore circoli nelle loro vene, per una specie di trasmissione genetica. Insomma, non pensate che un matriarcato in chiave moderna sia talvolta inevitabile nella nostra società?»

Il barone, che aveva ascoltato con grande interesse la lezione del professor Pasquino, sospirò. «Cosa volete che vi dica, rassegnamoci. Le autorità celesti devono aver scelto Bagnara per la prova generale del nuovo ordine del mondo. E in quanto a noi, prepariamoci pure a sfilarci i pantaloni… Oh, chiedo umilmente scusa, Donna Giuseppina…».

La nobile dama chinò il volto come a nascondere un rossore che non c’era. Poi, per fugare qualsiasi ombra di imbarazzo, si affretto a dire: «Voi siete ingiusto e crudele, caro barone, se come mi sembra di capire una buona parte di colpa per quel che succede la date agli uomini. Un giorno chiesi ad un pescatore, uno dei tanti che fanno un lavoro duro e non possono essere accusati sicuramente di codardia, come mai i maschi si sottomettano a volte alle loro energiche donne. E lui mi rispose: non siamo noi a sottometterci, sono loro a imporsi!».

«La verità», interloquì il cavaliere Anastasio Aniello di C., «è che le bagnarote sono vulcani, diavoli, le inventano tutte per sbarcare il lunario. Basta vedere con quanto puntiglio si dedicano al contrabbando del sale tra la Sicilia e il Continente. Il margine c’è, eppure si tratta di un traffico miserabile, tanto che spesso le autorità chiudono tutt’e due gli occhi».

«Ciò mi fa venire in mente un incredibile fatto di cui fui testimone anni fa», intervenne con un filo di voce Don Agostino, un prete così minuto che lo si sarebbe potuto scambiare per un chierichetto, non fosse stato per la sua spropositata e candida chioma. Senza fiatare per non disperdere col nostro respiro le sue parole ci disponemmo ad ascoltarlo.

«Una sera», sussurrò, «nascose dietro una scialuppa di salvataggio del traghetto col quale tornavo da Messina vennero scoperte due bagnarote, con dei grossi sacchi di sale. Vedendosi perdute cominciarono a protestare: a chi facevano male mentre il sale marciva sulle spiagge della Sicilia? I finanzieri non volevano sentir ragione. L’accusa di contrabbando, la macchia sul certificato penale parevano inevitabili. Intanto in coperta si era raccolta un po’ di gente. E fu approfittando della confusione che le due donne scavalcarono il parapetto e si gettarono in mare, tenendosi stretta la mercanzia.

Le vedemmo scomparire, inghiottite dal buio e dal mare. La gente urlò, le guardie promisero il perdono. Tutto inutile. Erano tempi brutti, c’era la guerra, luci non se ne potevano accendere. E comunque, sull’abbrivio, il ferry-boat era già andato un bel po’ avanti. Il comandante non poté fare a meno di lanciare l’allarme e continuare la corsa, mentre io recitavo, in ginocchio, le preghiere dei morti».

«Difatti chi poteva pensare», continuò Don Agostino dopo aver ripreso fiato, «che quelle sciagurate avessero una minima probabilità di salvezza? E invece dopo un’ora o due, sfinite e ansimanti, raggiunsero la costa calabrese, soccorse dai pescatori che le avevano udite piangere e imprecare. Nei pugni stringevano ancora i sacchi del sale, vuoti».

La luna era ormai alta nel cielo, i suoi raggi frugavano tra gli scogli della marina, i sentieri che risalgono la collina, i tetti di Bagnara schierati sotto i nostri sguardi. Fu Don Cosimo, il padrone di casa, a rompere il silenzio. «Già», disse, «le bagnarote erano abituate ad affrontare le insidie dello Stretto. Vi si avventuravano su barchette da niente, sfidando mulinelli e risucchi che forse perfino il pescespada, nelle sue migrazioni, si ingegna a scansare. Poi l’epoca d’oro del sale finì, ma loro non si scoraggiarono, dedicandosi ai commerci più impensabili da un capo all’altro della penisola. Dei calabresi fuggiti dai campi di concentramento tedeschi nel ’45, nei giorni della Liberazione, giurano di averne visto un gruppo al Passo del Brennero. Come avessero fatto ad arrivare lassù tanto in fretta, in quell’Italia disastrata è un mistero».

Fino a quel momento il solo a non aprire bocca era stato il farmacista Calogero S. tutto assorto, apparentemente, nella contemplazione delle opere d’arte sparse nel salotto baronale. D’un tratto si rivolse a me e chiese: «Voi conoscete la storia di Donna Canfora? Qui da noi, in Calabria, Donna Canfora è popolare come una diva del cinema. Era, ve lo ricordo col vostro permesso, la regina di Taureana. Un giorno fu attirata con l’inganno su un vascello turco, ma di fronte alla prospettiva di finire nell’harem di qualche sultano orientale preferì gettarsi in pasto ai pescecani. Almeno così dice la leggenda. La cosa certa è che dovette morire quando meno se l’aspettava, tanto che non ebbe il tempo di confidare a qualcuno dove fosse la sala del tesoro reale.

Bene, sono trascorsi i secoli. Senonché qualche anno fa Donna Canfora venne in sogno ad un contadino di Palmi e gli disse testualmente: tre sono le vie che portano al tesoro, la chiesa di San Fantino, la Torre, la grotta di Pietrenere. Era una rivelazione che valeva più di un terno al lotto, e il contadino non perse tempo. Si mise d’accordo con alcuni amici fidati, e insieme cominciarono a cercare quel ben di Dio. Avevano deciso di scavare nel terreno accanto alla chiesa; ma era una zona troppo in vista, e difatti vennero i carabinieri e li mandarono via. Così si spostarono a Pietrenere».

Il dottor Calogero S. rabboccò con calma il suo bicchiere di rosolio prima di proseguire: «Io sono di Palmi. Pochi chilometri ci separano da Bagnara, perciò so bene come andarono le cose. Pietrenere è una grotta che dà sulla spiaggia. Col tempo tonnellate di sabbia e detriti l’avevano ostruita. Potete immaginare la fatica per aprirsi un varco e arrivare alla stanza del tesoro, ammesso che fosse lì. Per farla breve, in paese si sparse la voce, giunsero altri volontari armati di vanghe e di picconi. Si lavorava giorno e notte, a turno. Fu costituita perfino una società, e ciascuno ebbe (sulla carta) la sua parte d’oro e d’argento.

Il budello di Pietrenere si faceva sempre più profondo. Ma intanto l’erbaccia invadeva i campi e gli agrumeti; nelle stalle scalpitavano le mucche turgide di latte; gli scaffali delle botteghe si velavano di polvere; il frizzante vino d’Aspromonte languiva nelle botti. E gli uomini dov’erano? A sventrare la montagna, cercando il tesoro della regina comparsa in sogno a un contadino che forse aveva bevuto troppo. Così accadde un fatto imprevisto.

Un giorno, verso il tramonto, mentre il sole già si inabissava sullo Stretto, uno strano corteo si mosse dal paese. Era formato da centinaia di donne armate di scope e di mattarelli. Giunte a Pietrenere entrarono come furie nella grotta, distribuendo randellate sulle schiene che capitavano a tiro. I cercatori d’oro vennero ricacciati uno per uno dal budello, e trascinati a casa come si trovavano, mezzi nudi, sporchi e sudati. Dopo la vergogna di quel giorno nessuno di loro ha più osato mettere piede a Pietrenere, e nella grotta si stanno di nuovo accumulando la sabbia e i rifiuti spinti dal mare. Perché vedete», concluse il farmacista, «le donne di Palmi sono strette parenti di quelle di Bagnara, e se si arrabbiano nessuno può fermarle».

Don Cosimo aveva ascoltato in silenzio, e alla fine commentò col sorriso sulle labbra: «Bene, non ci resta che organizzare una sfida tra le dame delle due contrade. Ma vi avverto, le bagnarote sono toste. Imparano da bambine ad andare in giro da sole, a sollevare grossi pesi, si sono trasformate perfino in brigantesse per vendicarsi delle offese dei predoni: si parla ancora di una ragazza che nel secolo scorso uccise un bandito che l’aveva insidiata, e poi si mangiò il suo cuore. Insomma non hanno paura di niente e di nessuno. O meglio hanno paura solo di se stesse, se è vero, sospirò Don Cosimo, che portano cinque sottane per resistere alle tentazioni».

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