Costa Viola, mucche e somari

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Costa viola: mucche e somari

dott. Alessandro Carati

Credo che in ognuno di noi abiti un arcano, misterioso senso, che ci mette in comunione con la natura, ne coglie il respiro, e ci infonde, un mistico tepore, che porta, fra mille cinguettii, alla primavera, e ci fa sentire più forti, con una strana voglia di fare esplodere le nostre energie, pronti e fiduciosi ad affrontare la nostra esistenza quotidiana.

E doveva essere una giornata del genere: e noi, come eremiti, ma non così pezzenti, o puzzolenti, andavamo  per monti e per valli, per piani e fiumare, ovunque una voce nascosta chiamasse, ad indicare un’antica presenza, un ignoto mistero, o il respiro soffice, impalpabile, inafferrabile di qualcosa di bello; ma soprattutto andavamo, come trasportati da una bizzarra voglia d’avventura, che non esisteva forse, ma con la quale avevamo un appuntamento, perché ci doveva aiutare a scoprire le nostre origini, tentare la nostra storia, rinsaldare le nostre memorie.

E nel frattempo, in attesa di questo latente connubio con il caso e la buona sorte, tentavamo di cogliere, discernere, capire, quello che fra le mani ci capitava, all’ombra di quella violenta ineluttabilità che fa sì che l’uomo di Bagnara sia orgoglioso di essere bagnaroto, anche se poi è nato in una clinica di Scilla, di Villa, di Oppido Mamertina, o addirittura, con grande onore, a Reggio Capoluogo; anche se poi, in fondo, come disse una persona che la sapeva lunga al riguardo, siamo tutti figli di puttana, di padre berbero e di madre ignota, ed è un bel chiedere, in questa terra natale, ogni volta che ti incontra uno sconosciuto e dice: “Donde vieni? Di chi sei figlio? Donde vai?” Quando alla fine ogni cosa trova l’accomodo, perché anche lui, è figlio di puttana.

“La vita è dura!” sentenzia il saggio, e la sua impassibilità (ipnotica) lo salva dal vittimismo.

“Nemo profeta in patria!” replica il poeta, emulo di tanti onori e per andare sicuro: “Vigliacchi ed effeminati sono i poeti!”.

Ma è tutto un bluff, per dar modo agli incapaci di riunirsi e governare, mandando gli altri a casa, a starsene zitti e tranquilli, o fuori a diventar qualcuno e ritornare profeti.

Il vecchio zoppo fa eccezione, e più grossa l’ha, più la racconta, perché è un mondo di sopravvissuti, e così lui trascina la platea degli stolti e gli anni che rimangono dentro il cappotto e i pantaloni sporchi.

E di balza in balza, di piano in piano, l’ebbrezza di non essere nessuno, e di potere all’occorrenza mutarci in saggi, poeti, vecchi, e di sfottere il mondo, ci afferra, e ci conduce nei posti più sperduti e isolati, carichi solamente delle nostre macchine fotografiche e della nostra incoscienza.

Quel giorno spuntammo fra l’erba alta d’un dosso, giostrando tra le spine di uno dei pianori della Corona, sudati, e sputando con rabbia gli insetti che ci morivano in bocca; e a pochi passi, quasi di fronte, vedemmo un mandriano di corporatura immensa, completo di coppola, bastone, giacca di velluto di color marrone: pascolava due mucche dalle macchie bianche e rosse, dalle teste grosse, con le orecchie a sventola, e due labbra carnose e volitive, piene d’erba (che giravano  e rigiravano nella bocca, a macerarsi lentamente), e gli occhi svampiti, e le mammelle piene come quelle di Marylin Monroe.

Il bovaro stava immobile, non ci vide… all’inizio, quando le nostre teste spuntarono innocenti, come due girasoli, fra l’erba alta. Ci voltava le spalle rivolto all’orizzonte ed ai suoi bovini, e poggiava il mento sul pomo del bastone, che tratteneva saldamente con tutte e due le mani, robuste e carnose: ammirava la sua bella terra!

Il mare era ai suoi piedi, e il cielo lo accarezzava, con quelle nuvole, che stavano ferme, mentre lui navigava, sulla terra ondulata, dalla soffice erba,  fino alla Sicilia. Si scorgevano le bellissime Eolie, una dopo l’altra, a sentinella, sul limitare dell’orizzonte, e così, se voleva, lui ci andava, e lasciava, questo selvaggio suolo di Calabria, sempre ammaliante nei suoi piccoli prati, sempre ostile ed orgoglioso, nei suoi monti selvaggi e precipiti sull’immenso del mare. E lui mirava tutto, come in una  pastorale, e non conosceva natura più sublime e misteriosa, e non cercava di capirla, ma forse dentro di se stupiva, e si adagiava, senza neppure accorgersene, sul dolce suolo della sua intimità, così da vivere quel barlume di esistenza in una rilassante eutanasia, al di fuori del bene e del male, al di fuori del mondo intero, dolcemente adagiato sul prato della sua anima.

Il cielo era alto, d’un tenue color celeste, altrove s’incupiva per diventare zaffiro, mentre sparsi qua e là, nembi di nube bianche e candide come fior di latte sembravano vagare tra mille giravolte. E l’omone ne era affascinato: colpito da quella visione se ne stava immobile, con i suoi immensi pantaloni di velluto blu che finivano sopra i calcagni, in modo da lasciare bene allo scoperto gli scarponi infangati; con la giacca anch’essa di velluto che riusciva appena a cingere le sue spalle, e stava abbottonata stretta sul petto, da dove cadeva allargandosi per lasciare bene in vista un ‘ampia camicia a quadretti che, bene aperta sul collo, scendeva bene ordinata per poi aprirsi, piegare e fuoriuscire all’altezza del ventre. E se ne stava immobile, dolcemente pensieroso, forse incredulo che quello strano spettacolo si rinnovasse davanti a lui, che muoveva lo sguardo dal campo fiorito al cielo, e dal cielo al campo.

Vedendolo distratto, noi cogliemmo l’occasione e scattammo due foto; il click, per quanto tenue, ruppe l’incantesimo, e fu un attimo, perché vedemmo, tra l’erba alta, l’uomo trasalire senza rendersi conto di nulla, e tuttavia rimanere fermo, come in attesa, impietrito; noi, temendo una reazione, qualora egli per primo ci avesse visti, balzammo di colpo alle sue spalle urlando un forte e secco: “Buonasera!”. Le due vacche continuarono al pascolo con uno sguardo distratto e stralunato, ma il vaccaro, che ancora non si era ripreso, fece un ulteriore salto di sorpresa, ed alzando le braccia bene in alto si girò verso di noi con un passo all’indietro. Attonito, annichilito, con gli occhi fuori dalle orbite, allucinati, il volto contratto e paralizzato, le mani ancora in alto, si era rivolto a noi, ma non sembrava vederci: davanti ai suoi occhi s’era fermata la nebbia intensa ed improvvisa dei Piani della Corona. Non avevamo canne mozze, al loro posto tra le nostre mani stavano due splendide e preziose macchine fotografiche, i nostri tesori più cari, con i loro zoom dalle ottiche lucenti, e così costosi.

Ci trovammo d’un tratto imbarazzati, ma facemmo finta di niente, e continuammo a camminare verso di lui, come se parlassimo tra noi: avevamo capito che l’uomo, con tutta probabilità aveva scambiato il click dei nostri otturatori, per la messa in carica del grilletto d’un fucile, e forse, anche il nostro saluto, come l’ultimo a ricevere una volta giratosi, e con le mani in alto aveva umilmente chiesto la grazia.

In questi paraggi, lo sappiamo, qualche volta si va a lupara e a pallettoni, e poco ci vuole, anche al migliore degli uomini, per entrare nella lista: con un po’ di volontà ce la fanno tutti!. Le qualità non mancano! Le forze ci sono! E sono terre dall’animo caldo… queste!.

Non conoscevamo quell’uomo, non sapevamo se, una volta ripresosi dallo stupore, la sua sarebbe stata una reazione violenta. Certo aveva preso una paura formidabile, e doveva avere un cuore sano e forte, perché non gli era scoppiato. Anche noi eravamo stati presi all’improvviso, e per rompere l’imbarazzo, subito gli chiedemmo se potevamo far due foto: alle mucche. Quello, frastornato e un po’ stordito, piano piano ritornava in sé. Aveva già lentamente e con una vaga vergogna abbassato le braccia, e con il suo bel faccione grosso e tondo alto due metri sopra il corpo massiccio e compatto, con lo sguardo accigliato ed un moto quasi impercettibile del capo, fece cenno di si, ma rimase turbato, dubbioso, un po’ rabbuiato, e ad un tratto sembrò che gli fossero sorti un’infinità di dubbi e di interrogativi. In un silenzio di tomba, restò pensoso e indifferente, guardando o fingendo di guardare il campo innanzi a lui, e forse, tra sé malediva il momento in cui ci aveva visti, quando, forse senza rendersene conto, se l’era fatta addosso. Noi avevamo compreso il problema, ma facendo finta di ignorarlo guardavamo le vacche e facevamo qualche apprezzamento, così, tanto per rompere il ghiaccio e svignarcela al più presto, perché ci rendevamo ben conto di aver rotto un incantesimo, e che il padrone via via che il tempo passava, ci guardava impaziente, con la coda dell’occhio.

Ad ogni modo bisogna ammettere che nella Costa Viola c’è sempre un bel panorama da fotografare, e c’è sempre qualcuno, anche tra coloro che ti sembrano fuori dal mondo, che lo capisce e lo comprende, cosìcchè, da quando la moda ebbe inizio, di tanto in tanto, a seconda di come tira il vento, si dice alla gente: “Perché non venite a visitare questa terra da sogno?”

Ed è per questo che il turista sciocco, ridicolo, allampanato e spendaccione è diventato di moda anche quì, in questa estrema ed abbandonata punta dello stivale, dove ancora tra i denti, però, taluno mormora: “Va bè! Sopportiamo anche questo stronzo!”. Non a caso la mafia, e cosa nostra, ‘ndrangheta, e camorra, e tanti altri emuli loro, da veri pionieri, scartando tutti, a gomitate si sono presentati alle porte del palazzo, e poi hanno investito bei mucchi di soldini per creare, a favore di quella specie rara e spendacciona, residence colmi d’ogni conforto, caldi e protetti, invitando i paria a non essere insofferenti,  portare rispetto e cordialità verso questa specie di smidollati coi soldi; e accettare con cortesia quella nuova moda che ormai porta sempre più spesso ad uscire dalle mura di casa e del paese per andare a rompere le palle un po’ in giro, pena una dieta di piombo pesante, o il venir meno del loro saluto, che va ben oltre, per efficienza, di quella bistecca che lo stato offre al cittadino, con tutto il suo spirito democratico, ma che non può essere dolce o salata allo stesso tempo e per tutti. Così, anche nei luoghi più impensati, si fa avanti un raggio di cultura, e anche l’analfabeta impara che i tempi sono cambiati, e che il progresso non si può frenare. E mentre all’inizio di questo boom di cordialità e gentilezza (perché no: di civiltà!), spezzato solo da qualche solitario malfamato, si era tutti malfamati e solitari; adesso, a furia di batoste e di mass media si è diventati tutti dottori e imprenditori. Credo che in altri tempi, quello stesso bovaro, all’apparenza così impaurito, appena si fosse ripreso dallo spavento, ci sarebbe saltato addosso a pugno chiuso e bastone in aria, e ci avrebbe detto, senza mezzi termini, di andare a rompere i coglioni altrove, e noi senz’altro, consapevoli del misfatto, ce la saremmo data a gambe. E invece… metà anno ottanta, i tempi giocavano, in maniera quasi ambigua, uno strano gioco, che ci vedeva vincenti, e quello, grande e grosso, era costretto a contenersi e a far finta di niente, e recitare come uno che la sapeva lunga…e non la sapeva affatto. Ritengo che questo progresso, benché aperto agli aspetti nuovi ed edificanti degli umani rapporti, abbia un po’ inibito, all’insegna del profitto, quella tendenziale spontaneità contadina, già fiera e padrona del suo territorio e dei suoi valori, già custode severa delle sue intimità, oggi volgare, falsa e rapace come i padroni d’una volta, e tanto più manneabile, quanto più vicina a quel minestrone di realtà della quale spesso non può fare a meno: la realtà del profitto, della ‘ndrangheta, della delinquenza, dell’isolamento e della ignoranza, che hanno profonde radici e non lasciano scampo, soprattutto quando si fregiano di un titolo o d’una protezione. E se è pur vero che essa si manifesta con tratti ben più complessi di quelli fin qui accennati, se è pur vero che tutto si avvolge e fregia del compromesso della legalità di comodo, è certo che ormai si sono formati nuovi stereotipi mentali e culturali ai quali non si può dire di no, salvo forse, poche e rare occasioni.

Ero sulla strada che da Sinopoli porta ad Acquaro, quando in lontananza vedo un vecchio contadino, magro e smilzo, con la stessa fame di tre secoli prima, in scarponi e doppio petto, con la coppola sugli occhi, l’accetta sulla spalla con il manico davanti a penzoloni, che camminava tranquillo, con passo deciso, tirandosi dietro un somarello svogliato, carico di un basto più grosso di lui, con ai lati due bellissimi canestri in giunco, sopra i quali posavano due cataste di legna che quasi gli coprivano tutti e due i fianchi ed in fondo alla quale potevano vedersi una testa ed una coda, ballonzolanti allo strascico monotono delle quattro zampe. Era una scena magnifica ed irrepetibile! Povero somaro! Una delizia per gli occhi vedere ancora un avanzo così perfetto di una civiltà che andava per scomparire.

In effetti, il somarello ed il mulo, un tempo compagni inseparabili del contadino, ormai si vedevano sempre più di rado, e la campagna, nelle sue zone più impervie, si andava spopolando quasi del tutto, perché sono sempre più rari i giovani che decidono di dedicarvisi, e i vecchi, che pure l’amarono, sono ormai stanchi. La quasi totalità dei nostri vigneti e dei nostri giardini a terrazza, così affascinanti e suggestivi ancora adesso, vera delizia per gli occhi, ed impagabile ornamento della natura, giacciono nell’abbandono. Gli studiosi, etnologi, antropologhi, storici e via dicendo, l’urlano a gran voce, facendo notare, con immensa pseudo-nostalgia, come anche i più genuini aspetti del nostro folklore e delle nostre tradizioni, purtroppo, si disgregano e svaniscono fra l’apatia e la noncuranza generale. Il sottoscritto, preso atto di ciò, non potendo far niente, quasi rassegnato, va tuttavia matto per i rimasugli e gli strazianti strascichi della società che fù.

Avvistato che ebbi il contadino, bloccai l’auto a debita distanza, e scesi avviandomi di corsa verso di lui: egli, con il suo somarello, proseguiva tranquillo per la sua strada, e mi veniva incontro con indifferenza. Da un pezzo mi aveva squadrato, forse ancor prima che scendessi dalla macchina, perché la solitudine di queste contrade insegna ad essere guardinghi e cauti, a rassegnarsi al silenzio, a non disturbare, per imparare a cogliere, al momento opportuno, anche il rumore più strano e impercettibile.

Gli corsi incontro e lo salutai: “Buongiorno!”

“Buongiorno!” disse lui, continuando per la sua strada e non degnandomi più di tanto. Stesso passo, stesso andazzo!.

“Permettete che faccia due foto al suo somaro?” dissi.

“E pecchì?” disse lui con genuina indifferenza, tutto d’un fiato.

“Sto facendo una ricerca, uno studio, sui basti, su come sono costruiti, sul loro uso. E il somarello ne possiede uno molto bello…ecco…io vorrei fargli una foto.”

Nel dire ciò tentavo di guardare l’uomo negli occhi sotto alla coppola, e lo vedevo tosto, con un affare serio che sembrava un volto; compresi che dovevo giocare d’astuzia, perché quello, con quel modo rilassato e strafottente, o aveva tempo da perdere, o giocava più astutamente di me. Intanto camminava e se ne andava senza degnarmi. Poi, di sorpresa:

“Che ave u’me’sceccu?” gridò con tono deciso, quasi minaccioso; forse voleva impaurirmi.

“Beh..”dissi pensando che il contadino non sapesse neppure cosa fosse un basto “Voglio dire che il suo somaro è bello, ha una bella sella. Stò facendo uno studio al riguardo…”

“E pecchì u’ fai stu studiu?” disse quello con la faccia scura e sottile, un collo sottile, ma massiccio e ben piantato, che faceva vedere belle e dritte tutte le sue arterie.

Eravamo al punto di svolta, e commisi un deplorevole errore: volli credere che questa gente, sperduta fra i monti, sapesse meglio apprezzare il significato della parola Pro Loco, o meglio, che la Pro Loco, quassù fra le montagne, riscuotesse più successo che in certi paesi della costa, dove vivacchiano i vecchi giocando a carte, e dove si trascorre il tempo tessendo e ritessendo le fila del nepotismo, e dove i più giovani si vestono da pavoni, pensando a come mettersi in mostra e trattare per fare il salto in municipio.

Risposi: “Per la Pro Loco!”

“ E che è ‘sta Pro Loco?!” disse quello scodinzolando il capo, come a dire che forse vaneggiavo, tanto grossa era la cazzata, e che lui sapeva cos’era la pro loco, ma che se ne fregava. E sotto sotto mi stava magistralmente prendendo per i fondelli: le sue domande o risposte che fossero, mi apparivano già cariche di un sottile doppio senso. Ma non volli essere scorretto, e preferì fare lo sciocco, il tosto, e rispondere a modo e perbene, così da togliergli ogni soddisfazione, e rendergli pan per focaccia.

“La pro loco” iniziai “è un’associazione turistica…a favore del turismo, senza fini di lucro, costitutita quasi in ogni paese ormai, per valorizzare il territorio, le tradizioni, il folklore…”

“U sacciu cos’ è sta’pro loco” disse scocciato “ma chi sìi tu nun lu sacciu!”, ed aggiunse “Nun sìi d’isti parti. Nun ti vidìia mai. Che veni a fare da chisti parti?!”

“No!. Non sono di qui! Ma ho i parenti qui, e per questo mi interesso a queste cose. Sono un povero emigrato, figlio di emigrati, lavoro a Milano, e quando posso ritorno al paese.” Dissi!.

Lui continuava il cammino, ed io gli tenevo dietro, con la macchina fotografica tra le mani. Per un po’ si fece silenzio, camminavamo l’uno di fianco all’altro, come vecchi amici. Lui talvolta sembrava scrutare nella sua mente per fare suoi calcoli, ed io me ne stavo quieto quieto a fare i miei: quella dell’emigrato era stata una espressione felice, tanto è vero che la gente dice che sono sempre i migliori ed i più coraggiosi quelli che se ne vanno, e non a torto, perché qualche volta accade che si va al nord per le cure di un valente primario, e si scopre che anche lui è del sud.

Ma finalmente, per uscire dallo stallo, sebbene conscio della mia posizione d’inferiorità, chiesi: “Posso fare questa foto?”

“Non è possibile!” disse quello seccamente fermandosi per un attimo e riprendendo subito il cammino.

Tutto ad un tratto gli ero stato antipatico, e non mi aveva perdonato la spudoratezza.

“Neppure una” supplicai, “…al somarello?”

“Non è possibile!” disse quello continuando il cammino con perfetta noncuranza, come quando lo avevo visto all’inizio di questo incontro, e con un tono di voce che dovette sentire Mosè nel ricevere i comandamenti, allorchè il Signore ritenne opportuno suggerirgli di stare bene attento a quello che aveva tra le mani, e ad essere un tantino più responsabile del solito; o che rimbombò nel vuoto dell’universo nel giorno fatale della sua creazione, quando il Signore vietò ad Adamo di mangiare la mela, con quell’olimpica severa pronuncia che indusse il debole uomo a riparare fra le dolci braccia di Eva ed a restarne per sempre prigioniero e soddisfatto.

“Non è possibile!”

Povero scemo d’un vecchio!… mi voltava le spalle e se ne andava, senza che io potessi fare alcunchè, lasciandomi sospeso nel limbo, con nella mente un foglietto dieci per quindici o anche più, ma tutto bianco, ed un incommensurabile impegno culturale distrutto dall’ignoranza e dall’incomprensione, dall’orgoglio e dal protagonismo, o da qualsivoglia simile ostacolo che il popolino impudente ama porre a muro contro la nostra intelligenza.

Dal canto mio facevo il mea culpa, per avere commesso peccato di presunzione, di superiorità, di orgoglio; ed aver giudicato l’uomo dall’apparenza.

Da quale cappello a cilindro era venuta fuori la Pro Loco?!. Forse dai meandri di un anima infelice e altruista che desidera che le cose corrano, o quanto meno camminino, anche quando sono sciancate e zoppicano muovendosi contro la loro stessa volontà?

Se avessi pronunciato la solita, noiosa, magica frase, quella che colpisce nel profondo anche il contadino più sperduto, le cose non avrebbero preso quella tragica piega, e non sarei finito così impietosamente chino sugli stracci di un sogno infranto.

Mi bastava dire, umile e rassegnato: “Stò facendo la tesi!”.Quasi a dire che le sventure capitano a tutti, ma che poi viene il sereno.

La tesi! Questa parola magica, una scatola grande, dalla quale per miracolo escono fuori le scatole più piccole. E con la laurea che stà per arrivare, mi gioco tutta la vita, anche se in questo mondo, alla fine dei conti, alla fine di un mare di fatiche, negli anni del progresso più evoluto, la laurea è come la cornice di un povero zappatore, e stà lì con la sua terra a marcire nel vento.

“Vai a zappare!”, ma sei sempre un laureato. Non dimenticarlo!.

Ma un tempo non era così! Ed i primi successi dettarono legge.

E’ la vita! I contadini la sanno lunga! e a ripicca dicono che in campagna mancano le forze, e che ormai si mangia sempre meno. Con i sacrifici di tutta un’esistenza e forse di più, coi sacrifici che furono già dei loro padri e dei padri ancora, mandano oggi, in questi albori degli anni ottanta, i loro figli all’università, fuori dal paese, dove le ragazze, che ormai non si vendono e non si promettono e non si comprano, stanno nei college delle suore, ed i maschietti  nei mini appartamenti, soli, se possibile, a caccia di ragazze. E tutti s’incontrano per lo più alla facoltà di medicina, di legge, o d’ingegneria; perché il medico guadagna molto, e resta sempre un gran benefattore; e l’avvocato, del quale nella moderna società si avverte un pressante e disperato bisogno, guadagna assai; e l’ingegnere, che quanto a professione non è da meno degli altri due, può sempre iniziare dal campetto di famiglia.

Però allontanare un figlio da casa è sempre brutto, e loro hanno il cuore spezzato quando lo pensano lontano, e l’orgoglio alle stelle per poterlo un giorno presentare come dottore, e nel frattempo poterne parlare ad ogni occasione, elogiandone intelletto e capacità, senza con ciò trascurare l’onore della famiglia e i suoi grandi meriti. E basta stuzzicare questo orgoglio, condurli sull’argomento, scavare nei loro cuori infranti, attendere con pazienza, il tempo che si gonfino come camera d’aria, e finalmente esplodano, ed ecco allora che ti afferrano  in una confessione piena e vanagloriosa, ed il gioco è fatto, il risultato garantito!. La mia esperienza al riguardo la sa lunga, perché iniziai a far la tesi a vent’anni, ed ai quarantacinque suonati non l’ho ancora terminata.

Ma non esite soltanto la tesi. Mi sovviene il caso di Gino e Colletto, che addirittura con differente tattica ed in situazioni ben più gravi, riuscirono a portare a compimento i loro progetti, direi, quasi in maniera ineccepibile: ed è questo il vero destino dell’archeologo e del ricercatore, che talora devono imparare a superare gli ostacoli a piè pari, evitando di cascare nella propria merda.

Si trovarono ambedue, la mattina presto, nella cinquecento sgangherata, e presero con pazienza per le impervie e tortuose vie dei monti, come se il tempo fosse stato imbrigliato al loro servizio, e come se quella povera macchinetta rosa (avanzo della strada!) avesse ancora cent’anni di vita. E’ una tortura viaggiare su un guscio di noce che non arriva mai, ma loro non avevano fretta, perché non sapevano neppure dove andavano, e neppure dove avrebbero sostato, ma la giornata era tiepida e buona, il cielo alto e sereno, ed era domenica. Salirono tranquilli parlando del più e del meno, arrancando lungo i magnifici e tortuosi tornanti della statale 18, laddove, dopo le giravolte di bordo monte del paese, abbandonate le sue case, a serpentina fra i dirupi ed i vigneti a terrazza affacciati sul mare, giungono tranquilli ai Pianori della Corona, dove i campi si adagiano a 350 m.s.m.; poi, superata la dorsale del S. Elia, ridiscesero ancor più tranquillamente verso Palmi e la Piana di Gioia, donde presero verso l’interno in direzione, credo, dei monti attorno ad Oppido. Ma si fermarono poco prima, inoltrandosi a fondo lungo un sentiero stretto, che si staccava dalla strada principale, per portare nel cuore di una campagna fatta di boschi, di balse ondulate, di nascoste radure, di macchie colme di rovi, laddove il sentiero diveniva pure esso campagna. Un luogo fuori dal mondo e sperduto, ma a tiro di schioppo dalla civiltà, donde però ogni cosa che l’uomo aveva manipolato, perfino le colture, così pulite ed ordinate, stavano felici in mezzo ad un caos di erbacce e di rovi e di varia vegetazione, ma nell’insieme sembravano tutte respirare l’aspetto caduco ed arruffato di una quotidiana miseria.

Un occhio qualsiasi non avrebbe scorto altro che faggi, qualche olivo, alberi da frutta, attorno al solito spiazzo coperto di rovi e cespugli, più densi attorno ai ruderi della catapecchia, e solcati da un reticolo di fossati di canalizzazione. Il mio carissimo amico Gino, ed il suo carissimo amico Colletto, erano di ben forgiata tempra, e si sentirono a perfetto agio in quel silenzio, nel respiro della natura.

Gino era un tipo alto di statura, gioviale, né magro né grosso, forse un po’ longilineo, ma niente affatto atletico. Aveva preso una tale passione per la storia della sua città natale e per l’archeologia, da farne la sua ragione di vita, il suo hobby più grande. Sposato e con qualche figlioletto, appena svincolatosi dalla tirannia del vecchio genitore, che, pace all’anima sua si trasferì all’altro mondo, egli chiuse bottega, o meglio, da uomo di senso pratico e da buon padre di famiglia, conscio della durezza della vita e delle proprie responsabilità, diede in gestione la ditta e si ritirò in privato per dedicarsi interamente agli studi, ai viaggi, alla famiglia, e al bar.

Denaro non gliene mancava di certo, già il genitore aveva accumulato una discreta fortuna, tale da permettere una vita agiata a più generazioni dei suoi figli, inoltre, la moglie lavorava sodo per la pensione, dunque soldi non ne mancavano, e al riguardo il problema non esisteva proprio. Gino poteva, con tutta tranquillità, affari di famiglia permettendo, decidere dove e quando andare, fare tranquillamente i suoi viaggi di studio, contrattare e incontrare chi voleva, riposare quando era stanco, o lavorare quando aveva voglia; in poche parole, poteva gestire la propria esistenza con quella libertà di cui pochi al mondo possono godere, mentre molti all’opposto hanno davanti decenni di lavori forzati, con la prospettiva di una misera e malfamata pensione per protrarre la vecchiaia.

E cosa aveva fatto Gino per meritare tutto questo? Niente! Era stato suo padre a far fortuna, e a lasciarlo erede, però bisogna riconoscere che, nonostante tutto, Gino era rimasto una persona semplice e cordiale verso tutti, forse più nei confronti della povera gente che dei magnati e della nobiltà, perché il suo hobby lo portava spesso e volentieri a contatto con gli umili e i malfamati, perché, dice lui, ne sanno più loro sulla terra che calpestano che qualsiasi manuale di storia.

E dopo i primi anni di apprendistato, durante i quali la sua fervida fantasia costruiva e distruggeva sulle rovine e le macerie del passato, con logica ferrea ma dai piedi d’argilla, dopo pochi anni che ebbe incontrato Colletto, mutò questa inesauribile e drammatico dinamismo in serietà scientifica, allo stesso modo che la serpe cambia pelle, ma al tempo stesso, trasformò il semplice svago in un duro lavoro, e la temerarietà in autocontrollo.

Relegato purtroppo nell’ambiente stretto ed obsoleto della provincia (sempre ammesso che da noi esita una provincia), quando Colletto era fuori paese (era infatti un misero emigrante), e lui restava solo, senza nessuno a cui raccontare le sue scoperte, se non alla moglie e ai figli ancora piccoli, allora mi chiamava, c’incontravamo e parlavamo. I primi tempi era come se una cosa dicevo io, e una diceva lui, poi entrambi facevamo il punto, scoprendoci di volta in volta soddisfatti o meno, e, a seconda dei casi, contrattavamo l’importanza delle notizie apprese o da offrire. Poi, dopo avere a lungo meditato, dissi a Gino che mi ritiravo in pensione, che non mi interessavo più di nulla: avevo abbandonato gli studi per dedicarmi alle mie memorie, come si conviene ai vecchi, che vedono dinanzi lo spettro della morte, o peggio ancora, il delirio della mente.

Gino, forse dispiaciuto di avermi messo k.o., venne a trovarmi sempre più di frequente, al punto che io stesso sentivo la sua mancanza qualora non lo vedevo o non lo sentivo. Lui arrivava, sedeva, non accettava mai niente, perché purtroppo aveva fretta, e dopo i soliti convenevoli, come va e come non va, cosa si dice e non si dice e via dicendo, preso il bando della matassa, iniziava la sua lezione di storia, che talora si protraeva ininterrotta delle ore, durante le quali tentavo di far man bassa del sapere che così disinteressatamente mi veniva elargito. Con gli anni si era scucito di dosso quell’abito variopinto e sfrenato che lo distingueva, e aveva appreso un modo di raccontare, così piacevole e calmo, che non potevo fare a meno di ammirarlo.

Talora nel corso della narrazione mi accorgevo che faceva delle tremende giravolte per evitare un punto caldo, evitare di svelare un segreto, una cosa importante a cui lui e Colletto stavano lavorando, ma poi mi accorgevo che bastava un cioccolatino per strappargli uno a uno tutti i segreti di questo mondo. Solo era questione di tempo e di pazienza, ed il buon cuore di Gino, una cosetta oggi, una domani, a goccia a goccia colmava il vaso: bastava solo attendere qualche annetto!. E, dopo i soliti: Non lo dire a nessuno, Resti tra noi, Acqua in bocca, Mi raccomando!, lui mi diceva il segreto, concludendo con un immancabile: Che ne dici?

A cui rispondevo, un po’ confuso e martoriato con un solito: Beh! oppure: Ma!.

Però un giorno, dopo anni che ci conoscevamo scambiandoci le nostre opinioni e parlando dei nostri studi, il discorso era scivolato su Bagnara fenicia, tema caro a tutti i nostri storici locali, pronti sempre a lucidarlo, specie ogni qualvolta si parla di una nostra marineria, o del coraggio e dell’ardire dei nostri pescatori, o della innata tendenza al commercio della nostra gente. La espressione fatidica era questa: “Bagnara ha origini fenice!”, e anche Gino la sbandierava. Poi, senza tuttavia rinnegarla, osò spingersi ancora più lontano nel tempo, arrivando ai lidi micenei ed a quelli della splendida civiltà delle Cicladi: ma è tutta un’altra storia!

Io rispondevo, per non rivelarmi scettico, che tutt’al più a Bagnara c’era stata una presenza fenicia: cosa alquanto diversa.

Non potendo contrastare in alcun modo la mia affermazione, Gino finiva spesso per cedere al mio pensiero, ma immancabilmente, ogni qualvolta tale discorso veniva a galla, io concludevo affermando che, purtroppo, non v’erano prove sicure, anzi, non v’era alcun documento scritto , o alcun reperto archeologico sufficiente e bastevole.

Gino si sentiva come menomato e deluso, e non proferiva verbo. E dai la prima, dai la seconda, ecco! io compresi la verità: nascondeva un segreto!. Un bel giorno, stanco di quel mio scetticismo e di quel mio modo superiore, contro il quale non aveva mai osato ribattere, per non compromettersi con le parole, mi invitò nel suo studio.

“Quello che stai per vedere – mi disse – non l’ha visto nessuno oltre a te, e se l’ha visto qualcuno, questo qualcuno non sa niente. A nessuno ne ho parlato, tu sei il primo. La cosa deve restare fra noi. Mi raccomando! Ti concedo di farmi tutte le domande che vuoi, ma alla fine devi rispondere con coscienza.”

E così mi portò di fronte ad una  piccola vetrina che stava innanzi alla sua scrivania. Ordinatamente disposti stavano centinaia di piccoli frammenti di ceramica, dipinta e no, a bande o impressa, tutti reperti di aspetto insignificante e misero per un profano, e di nessun interesse o valore, ma preziosi per un esperto, specie se è il medesimo ad averli trovati e a sapere esattamente luogo e circostanze del ritrovamento..

Si soffermò su qualche coccio, e discorrendo sul colore rossastro dell’argilla, sugli inclusi di origine calcarea, che dimostravano, analisi alla mano, un origine nord africana e orientale, li datò a diversi secoli avanti Cristo.

Non è forse questa una prova?

Anche il luogo di rinvenimento era sicuro, perché era la Rupe di Marturano, presso le fondamenta di una chiesa le cui antiche vestigia sembrano paleocristiane, e donde ci sono tombe a camera che testimoniano con certezza una presenza fenicia.

E se non bastava, quel frammento di argilla con tracce di pittura a bande rosse, anch’esso sottoposto ad analisi come tanti altri, aveva dato esito positivo. Si trattava in tutti i casi di ceramica di origine orientale o nord africana, dunque non prodotta in Italia, ma importata.

E come era finita sulla Rupe di Marturano se non portata dagli stessi fenici, che lì, tanti secoli prima di Cristo, avevano senz’altro aperto uno scalo ed un emporio per il loro commercio?

Così Gino, prove alla mano, senza però farmi vedere l’esito scritto delle analisi alle quali si rifaceva, mi dimostrò che a Bagnara c’erano stati i fenici.

Io dovevo fidarmi delle sue parole e della sua onestà, perché di più non poteva dirmi ne mostrare: lui e Colletto stavano ancora lavorando, e al popolo incredulo, per il momento, non potevano che offrire un cioccolatino, tanto per addolcire il palato, ma in futuro, però, il frutto dei loro studi e della loro sapienza, avrebbe reso onore al paese.

Così si esprimeva Gino, rivelando innocenza e malumore per un contesto, quello cittadino, che così male ricompensava gli affanni e le fatiche di chi tanto lo amava.

Colletto, invece, era tutt’altra pasta!

Bassotto, paffutello e un po’ biondino, con due occhietti da furetto che la sapeva lunga, aveva uno strano accento, quasi da signorino d’oltralpe, ed in effetti lavorava al nord, dove insegnava storia medievale presso la facoltà di lettere e filosofia dell’Università di Cosoleto (credo!), e teneva conferenze e pubblicava su non poche riviste specializzate: il suo piatto forte era lo studio approfondito delle tendenze sessuali dei calabresi in genere, e di quelli dello Stretto in particolare, connesse alla pastorizia ed all’allevamento delle pecore.

Lo studio era il suo pane, e per un pugno di dollari il nostro Colletto dava l’anima, perché tutti sappiamo quanto poco ricompensi la cultura, e, viceversa, quanto chieda.

Egli era una persona che aveva stile e galateo, era intelligente fuori dal normale, era una mente sempre in fermento, era un ricercatore puro, era un gran figlio di puttana, oltre che storico, antropologo, etnologo, archeologo, e forse qualcos’altro ancora. E di volta in volta s’intitolava a seconda delle incombenze e delle circostanze, ragion per cui, probabilmente, ho tralasciato qualche particolare. Il suo campo di ricerca era il meridione d’Italia, ma lui non era per niente meridionale; è pur vero che aveva una mente fervida ed elastica, ma soprattutto, quando intravvedeva la possibilità di far quattrini, si proiettava dando il massimo delle sue energie, non badando ad alcun principio, ad alcuna ideologia, pronto a fare finanche il chierichetto, qualora ritenesse che era utile e fruttuoso per la sua immagine, per la scienza e per le tasche. Era anche molto orgoglioso, e poter scrivere in un bel libro, o annunciare in una conferenza, che per scoprire gli aspetti reconditi, per entrare nell’animo universale, per svelare la credenza e la superstizione popolare, per scavare nelle fogne degli stupri, degli intrighi e delle violenze famigliari, lui, laureato e ricercatore puro dalle cento pergamene, aveva illuso e sopraffatto il cuore degli umili, era stato da loro accetto, ed insignito addirittura dello scapolare e del titolo di chierichetto, era questa per il nostro la seconda grande ed incommensurabile soddisfazione.

Così Colletto, di volta in volta, era chierichetto e pescatore, ortolano e falegname, bovaro e agricoltore, ed è fuor di dubbio che il suo sapere era immenso, la sua faccia tosta sublime! Ed un segreto per lui, era un segreto, perché ne andava di mezzo la pagnotta.

Il suo incontro con Gino era stato provvidenziale, perché nessuno meglio di Gino conosceva i luoghi e le persone di Bagnara e dintorni; nessuno meglio di lui era in grado di guidarlo nei meandri più sperduti del territorio con cognizione di cause ed effetti; nessuno come Gino, con il suo dialetto chiaro ed esplicito, sapeva afferrare il cuore della povera gente, rompere il muro della diffidenza, ed indurla in breve a parlare e a farsi accettare. In questo rapporto culturale era Gino il campione, Colletto il chierichetto, e talora, lo sapesse o meno, fatto era che Gino gli era molto affezionato oltre che utile. E come contropartita Colletto, con la sua loquela dotta e forbita, sapeva infondere a Gino il miraggio di nuovi e più ricchi orizzonti culturali nei quali navigare e perdersi; sapeva trarlo fuori dai banali e noiosi discorsi di paese; sapeva fargli comprendere che quel mondo meraviglioso descritto nei libri poteva essere colto anche nelle piazze e nelle strade più malfamate, facendo tesoro di ogni esperienza; sapeva, insomma, trar fuori l’amico dalla monotona, sciatta e meschina vita bagnarota. Ma una cosa era certa, Gino viveva nell’anima del suo popolo e se sfotteva sfotteva nel suo; Colletto viveva nell’anima della sua erudizione e del suo interesse e riguardi ne aveva pochi.

E si trovarono dunque tutti e due in mezzo a un campo, Colletto vestito di una elegante sahariana, Gino d’un palettò a tasche grandi, ed entrambi a busto chino scrutavano meticolosamente il terreno ai loro piedi, palmo a palmo, con le teste a terra e gli occhi aguzzi, intenti a scoprire e a cogliere i piccoli frammenti di ceramica sparsi qua e là, discutendo fra loro sull’eventualità di trovare qualche prezioso reperto: poi, avevano tirato fuori dalle borse le loro carte topografiche, e le stavano guardando per localizzare, con la dovuta esattezza, il luogo dove si erano venuti a trovare, quando , all’improvviso, come dal nulla, spuntò il contadino.

Vestiva uno spezzato, una logora giacca di fustagno, grigia, panciotto e pantaloni di velluto marrone i cui orli finivano dentro due grossi stivali da campo che andavano fino al polpaccio, Sopra i grandi baffi rubati all’ottocento, portava una coppola logora e sciatta annerita sul fronte; sulla spalla sinistra di tracolla penzolava una robusta doppietta a canne mozze: con due dita ne teneva la cinghia. Era distante, ancora, ma si andava avvicinando a grandi passi, e urlò minaccioso con uno sguardo di ghiaccio.

“Jitevvinni, jitevvinni. Fora d’u me’ campu!. “

E quando fu più vicino, con tono non meno perentorio, disse:

“Chi vi mandau? Jitevvinni, prima ca nun v’aggiu a sparare!”

Gino e Colletto, colti di sorpresa, guardarono l’uomo che s’avvicinava, visibilmente alterato, e sembrava una tigre pronta per il balzo.

“ Tene pure a lupara!” mormorò Gino in dialetto.

“Questo ci ammazza!” esclamò Colletto.

“Lassa fare a mmia. Lassa fare a mmia!” disse Gino “Se vede che non sei di qua, e crede che sei venuto apposta a rubare o a rompergli le palle, si arrabbia davvero: e se la prende con te perché ti odia, e con me perché ti aiuto!. Ma se gli raccontiamo qualche balla forse ci casca. Lassa fare a mmia! Tu fai finta di niente. Leggi la carta!”

E l’uomo fu loro addosso: “ Nun lu sapite che chista è proprietà privata? Jitevvinne!” L’uomo, un po’ acceso  in volto, forse per la corsa, forse perché il sole dei campi l’aveva colorato, a Gino che lo guardò, disse secco: “Fora!”

“Calma buon’uomo, calma! Siamo ingegneri dell’Anas, e non marusortati.” Replicò Gino, e aggiunse:

“Da noi non avete nulla da temere. Stiamo lavorando.”

L’uomo non sembrò comprendere, forse cadde nel dubbio e si sforzava a riflettere, s’arrestò a due passi da Gino, con l’arma quasi imbracciata e la mano destra attorno al grilletto, ma questi serio serio, gli si presentava con il massimo decoro e con la più genuina tranquillità, offrendo un viso gioviale ed innocente, mentre Colletto, dal canto suo, appena se la sentiva di distrarsi dalle carte che teneva appiccicate agli occhi, e se ne stava pressocchè immobile, quasi di traverso, e timoroso.

“E di domenica lavurate?” disse l’uomo a voce alta e chiara, ed ancora agitato. E a Colletto, che non perdeva una parola, e che era molto impressionato dalle maniere rudi del contadino, di quando in quando ad ogni alzata di voce sentiva per la schiena un certo brivido.

“E come no!” rispose Gino con tono gioviale, “La domenica è il giorno ideale perché non ci stà nessuno, e noi si lavora in pace. Se venissimo un giorno lavorativo, la gente ci correrebbe dietro, e dopo un po’, attorno a noi, ci sarebbe una folla di curiosi”

“Davveru?! Forse!” disse l’uomo, e Gino proseguì:

“Voi non sapete! Non  immaginate! All’inizio può essere piacevole, si scherza, si ride, si risponde alle domande, ma passa il tempo, e non si riesce più a lavorare. La gente vuole curiosare dappertutto, vedere gli strumenti, porsi davanti, farsi sentire, poi vuole sapere, vuole conoscere, e fa domande. E’ un lavoro ingrato il nostro. Non potete capire!”

“Capiscu, capiscu!” fece l’uomo con tono deciso, forse più per dargli ragione e sentire il seguito che per altro, e disse “A genti è tremenda, nun ti lssa in paci! U’sacciu ieu ca su’ cuntadinu, e che difendu u meu. Ma unde su’ gli strumenti? Ca nun aviti nenti!”

“Prima di fare le circospezioni e le misurazioni, i carotaggi e le analisi della salinità, della umidità, l’alcalinità, le circostanze e la consistenza del terreno, e tutto quanto occorre, bisogna stabilire il tracciato ideale, la terra che ci può realmente interessare, il luogo esatto…l’altimetria, l’ecosistema… Non si fa niente a caso. Poi, una volta sbrigati tutti i preliminari, si passa alla fase operativa, allora inizia veramente il lavoro!” disse Gino, che per professionalità e convenienza, pur esprimendosi solitamente in dialetto, fino a quel momento aveva preferito parlare in italiano.

“Capiscu, capiscu…nu pocu…ma capiscu..Ma cosa  nci fati ‘nd’a mea proprietà?”

“E comu?”  fece Nino, finalmente nella sua lingua madre, “non v’u disseru? Nenti sapiti?”

“No! Nenti sacciu!”

A quel punto, Colletto, che aveva seguito il dialogo fin dalla prima battuta senza perderne la minima vibrazione, ormai più tranquillo e a suo agio, veramente vigliacco, e con una bella faccia tosta:

“Ingegnere” disse “Ingegnere! Quest’uomo non può ancora sapere niente, perché solo due settimane fa sono stati decisi i sopralluoghi e avviati gli incartamenti. Probabilmente le lettere giacciono ancora nei cassetti.” Poi rivolto al contadino e passandogli davanti: “Scusi, permette?” disse con il suo impeccabile e odioso accento transalpino, e se ne andò più in là, sventolando le sue cartacce, a fare quello per cui era venuto, e a gonfiarsi il petto con la sua immensa vanagloria, godendo innanzi tempo il frutto di una vittoria non sua. E non è da molti passare davanti a due canne di lupara facendo l’indifferente, ma adesso Colletto aveva compreso di poterlo fare.

Ma il contadino, in effetti, non lo badava più, e si dimostrava all’opposto attirato dalla figura di Gino.

“Cos’aggiu a sapiri?! Ca nun mi dicisti nenti! Che su’ sti lettiri?”

Gino, che ormai era entrato nella parte, e che dentro ci stava bene, divertendosi pure, disse: “Ora v’u spiegu! Ora v’u spiegu!.Sapiti cus’è l’Anas? E mettiti via a doppietta: nun m’ave a sparari!”

“L’Anas u sacciu, est a…chija che faci i stradi, l’autostrati… U’sacciu, u’sacciu!” disse l’uomo con calma, ripondendo tranquillo l’arma ben ferma a tracolla, ma impaziente di sentire il resto.

“Bene! Lei deve sapere che da queste parti è stato deciso di costruire un’autostrada, un po’ per terra, e un pò sospesa sui piloni, che passa nel bel mezzo di Quarantano e va attorno attorno ai bordi dell’Aspromonte, bella e dritta, sorpassando il Savena e il Duverso e tutti gli altri torrenti, per collegare con le sue diramazioni tutti i paesi ai piedi della montagna. In tal modo, tutti questi piccoli centri, come Acquaro, Cosoleto, S. Procopio, Melicuccà, Sant’Anna, e tanti altri ancora, avranno nuove strade, ed i collegamenti diventeranno agevoli e veloci da qualsiasi zona della costa si provenga.

Anche la vita di campagna sarà meno isolata. Non vi dovrete più alzare alle quattro del mattino per essere al podere alle sette, ma prenderete l’autostrada ed in due minuti siete al lavoro!”

“Davvero?!” disse quello con gli occhi lucidi. “E quandu a faciti?”

“Ancora non si sa, ci vorrà del tempo, forse degli anni, dobbiamo prima esplorare il terreno, vedere se ci sono le condizioni…le premesse…prendere accordi con la gente….”

“I condiziuni ci sonu, ci sonu…Ccà ci abbisogna na bona strata, na strata grandi, per me passa nu camion, perchì d’invernu simu isulati da tutto e da tutti. Niuno ci bada! Simu abbandunati, come i bestie! Na strata è utili per lu lavuraturi, u diciia ieu, ca ci vuliva na bella strata…E d’unde a fati passari?”

”Beh, ecco, noi pensavamo…”

“V’u dicu ieu: fatevi guidari, ieu sacciu a zona. Fatila passari o’bordu d’u meu campu, iàni, aundi ci su’ chiji arberi. Venite cu mia, venite ca v’u spiegu! E così l’uomo s’incamminava e Nino gli andava dietro a spasso, mentre Colletto se ne stava intento a raccogliere cocci e ad esaminare il terreno.

“Ieu sacciu a zona…da Quarantanu a Lacchi….a Margherita…. tutta a sacciu meggjiu i me’taschi. E’ na vita che staiu ‘ccani. Vui siti fortunati, pecchì pochi sannu comm’a mmia…I giuvani oggigiuornu scappanu, nun ne vonnu sapiri di zappari a terra. A terra è dura, è fatica, e rendi pocu, e loro vonnu tutto, senza sacrifici, senza pietati. Vonnu per me se divertunu, per me vannu a ballari, vonnu a bella vita, e nun vonnu cchiù stari a u paisi a fari nenti, o a sudari sangu per moriri ‘i fami. E forse hannu ragiuni. Ma pe’chji cumm’a mmia, che restammu pochi a badari a’terra, è tardi, e ieu aggjiu a moriri accussì: int’a mea terra, dopo n’a vita i sudori e di malanni. Ma nun fua mai sutta u patruni! Sempre liberu fua!”

Gino  ascoltava, e lo seguiva, e nella mente gli balenò l’idea di farselo amico, perché in fondo sembrava un brav’uomo, e quello che più contava, diceva di conoscere quei luoghi assai bene. Ma pensava anche alle frottole che gli aveva raccontato, e a come potervi porre rimedio, ma comunque la girasse e rigirasse, la patata sempre gli scottava fra le mani.

Quella specie di uomini è cresciuta perdendo il sorriso e la voglia di ridere, perché fin da bimbi dovettero abituarsi a lavorare, a patire gli stenti e le fatiche, così da crescere orgogliosi e fieri, pieni di una dignità e d’un senso dell’onore che è la legge comandata dalla terra: fredda, ostile, senza compromessi, talora malvagia, e con un codice tutto suo a plasmare l’uomo.

Se agli inizi di quell’incontro, Gino avesse raccontato il vero, e tentato le vie dell’accomodamento e della ragione, il contadino non avrebbe compreso né ceduto: l’avrebbe semplicemente scacciato dalla sua terra! E però quella bugia fu talmente grossa e verosimile, che nessun altra verità, nessuna scusa ormai, l’avrebbe potuta cancellare; e ritrattando e ritornando al vero, forse, non avrebbe fatto altro che offendere ancor più la dignità e l’orgoglio di quell’uomo.

E allora?

Allora la strada si farà, il ponte sullo Stretto si farà, perché entrambi hanno la stessa possibilità, e allo stesso modo possono nutrire la speranza di chi ormai non crede più, e cammina disgustato del mondo e delle sue falsità, anche se in fondo, in fin dei conti, non ha mai perso la speranza.

E stiamo certi che il contadino, non andrà a sbandierare attorno il mega-progetto di quella strada, e, se proprio ne parlerà, saprà trovare la maniera giusta per non destare emozioni o ilarità, saprà elevarsi sopra la miseria per esclamare, al momento giusto:

“Sapite vui cosa mi tuccau a sentiri?!”

N.B.: Questo articolo venne scritto nel 1986, ovvero subito appresso i fatti che narra; venne poi ripreso e corretto ai nostri giorni,  e fa parte di un più vasto programma di lavoro.

Esso viene concesso all’Archivio  Storico Fotografico Bagnarese in via del tutto transitoria, e purché il suo uso non sia a scopo di lucro. Ogni riferimento a persone è puramente casuale, nel caso specifico di Gino e Colletto i fatti sono immaginari e frutto della fantasia dell’autore.

 

Alessandro Carati

 

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