Vincenzo Melluso

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LA VITA DI UN PESCATORE BAGNARESE

         di Maria Delfina Vega Melluso

 

Nel 2003 mi accingo a raccontare questa storia che si iniziò nel lontano 1886.

Il 10 gennaio di quell’anno nacque a Bagnara Calabra, provincia di Reggio Calabria, mio nonno materno, VINCENZO MELLUSO, figlio di Rocco e di Francesca Musumeci; uno in più fra tanti figli in una numerosa famiglia di pescatori.

La povera Italia appena unita non offriva un gran che ai suoi figli. L’America era la terra promessa. Il nonno a sette anni fu inviato in Argentina. I bisnonni rimasero nella loro terra e lui intraprese il viaggio verso l’ignoto con alcuni suoi fratelli e qualche cugino.

Era analfabeta ma con una gran voglia di imparare e di lavorare.

Dal suo Tirreno passò a pescare nell’oceano Atlantico a Quequén, provincia di Buenos Aires. I maggiori gettavano le reti dalla spiaggia e siccome lui era il più piccololi aiutava a raccoglierle sempre in riva al mare perché tanto poveri erano che non avevano nemmeno un battello.

Man mano cresceva aumentava la sua voglia di imparare allora diventò autodidatta e così imparò a leggere e a scrivere da solo, in spagnolo, una lingua diversa dalla sua, non frequentò mai una scuola nè in Italia nè in Argentina e dopo diventò un accanito lettore di poesie “gauchescas”cioè poesie che raccontano le caratteristiche dei “gauchos”di “las pampas”.

Ormai uomo, bisognava trovargli una moglie. “Moglie e buoi dei paesi tuoi” pensarono i bisnonni. Fecero i contatti necessari con la famiglia Dato: i giovani si scambiarono le loro fotografie e il matrimonio fu così combinato.

Vincenzo tornò a Bagnara, dove il 5 luglio 1908 sposò Orsola, figlia di Vincenzo Dato e Maria Fondacaro. Dunque i due giovani, appena ventenni, vennero in Argentina.

Si stabilirono a Quequén già diventata colonia bagnarese. Tutti cugini, cognati, fratelli, ecc. Di figli ne ebbero nove: Anselmo, Daniele, Rocco, Rudecindo, Francesca Aurelia (mia madre), Vincenzo (detto Pispiccia). Maria, Filiberto e Delia.

Il nonno si alzava alle tre di notte e ormai padrone di un cannotto con remi, andava a pescare assieme a su fratello Tomasso. Quando i miei zii crebbero un po’, lo aiutavano a vendere la pesca del giorno che veniva portata su un carro con cavallo alla vicina località di Necochea.

La terra di questa zona non è mica tanto buona, ma lui il suo orticello se lo faceva e così riusciva a far crescere un po’ di verdura per tirare su la sua numerosa prole.

Quando c’era pesca si cenava, caso contrario si andava a letto con una tazza di thè e un tozzo di pane.

Mia madre, la prima femminuccia dopo quattro maschietti, all’età di sei anni fu consegnata alla sorella della nonna, la quale non aveva figli. La portò a Buenos Aires dove la tirò su e la fece studiare.

Al nonno le cose andarono meglio e già nel 1927 diventò padrone del primo motoscafo.

Il porto di Quequén stava diventando importante per il trasporto dei cereali. Aveva un grande traffico e siccome è un porto sporco cioè, non molto profondo in cui le navi si incagliano facilmente, è necessario che un pratico di mare accompagni l’entrata e l’uscita di esse.

Nel 1929 il nonno creò una ditta: Fratelli Melluso, dedicata a portare il pratico e ad attraccare le navi. Comprò un distributore di benzina, e tantissimi terreni sia a Quequén che a Necochea. Fu padrone di pescherecci, ne ebbe tre: “Aurelia”, “Delia” e “Bernardino”. Fu un ottimo padrone: i suoi operai e i suoi pescatori gli volevano tanto bene perché lui, della sua epoca di povero pescatore non se n’era dimenticato e allora aiutava tutti i suoi dipendenti affinchè costruissero le loro proprie case.

Così che, come potete vedere, l’America la fece ma in Italia non ci tornarono mai più, cosa che ancora oggi non riesco a capire.

Certamente da buon italiano, calabrese maschilista, la ditta era formata soltanto dai fratelli, benchè i maschi l’avessero aiutato a lavorare, credo che le donne anche avrebbero meritato un posto nella società. Alle femmine, dopo la morte del padre, spettò solo un terreno ad ognuna.

Oggi la ditta gode di un’ottima salute, e viene gestita dai miei cugini, certamente tutti maschi, figli dei maschi.

Adesso hanno una barca, la “Don Vicente” nominata così in memoria del nonno, che si usa per portare a pesca gruppi turistici.

La memoria della famiglia è stata depositata su di me. Dei trentannove discendenti diretti, sono l’unica che parla e scrive l’italiano, ne sono diventa insegnante.

Cominciai a studiare la lingua proprio l’anno in cui morì il nonno (23 marzo 1964), e a lui promissi, dopo la sua morte, che avrei parlato l’italiano. Ormai credo di aver compiuto quanto promesso.

Post Author: Gianni Saffioti