La fabbrica del nonno, articolo di Pasquale Morabito

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  La fabbrica del nonno

ricordi d’infanzia

 di Pasquale Morabito

In quel periodo nonno Pasquale aprì una fabbrica in proprio, chiamando tutti i figli alla sua gestione. La famiglia aveva antiche

tradizioni di professionalità e d’esperienza nella lavorazione del castagno e nella costruzione delle ceste. Mettersi in proprio

significava nuove possibilità, più occasioni, in un mestiere in cui tutti i componenti erano i migliori in paese.Intanto per me era

iniziato il periodo della scuola: frequentavo la prima elementare. Al mattino venivo accompagnato da un garzone di papà.

Anche lui andava a scuola e, pur essendo più grande di me, continuava ad essere ripetente. La sua era una famiglia molto

povera, la madre era vedova e con tre figli, per cui fin da piccolo fu costretto a lavorare. La sua presenza nella nostra casa

era dovuta al fatto che, aiutando Mamma e Papà, imparava il mestiere.Siccome dedicava al lavoro più tempo che allo studio,

ripeté per tre volte la seconda elementare e abbandonò definitivamente la scuola. Probabilmente, visto che alla sua età era

ancora a quel punto, si vergognava, ecco  perché accompagnatomi a scuola  e assicuratosi che fossi in aula: (

veniva a guardare dalla finestra) lui marinava andando al mare.

“Il Lavoro la Scuola la Colazione”

Con l’apertura della nuova fabbrica a conduzione familiare, papà andava via al mattino alle cinque, per ritornare a casa la sera

verso le venti, qualche volta  anche dopo ,perché rimaneva a preparare le macchine per l’indomani. Mamma

contribuiva al  bilancio familiare lavorando le ceste a domicilio. Nel lavoro, per un certo periodo fu aiutata dal garzone,

lo stesso che mi accompagnava a scuola. Erano oltre duecento le famiglie che svolgevano l’attività a domicilio. La costruzione

della ceste, peraltro, utilizzava anche i bambini. La messa in opera del fondo della cesta e del coperchio veniva fatta sul

pavimento.  I ragazzi e le ragazze, per la loro agilità, erano più facilitati nella  prima fase di lavoro. Le famiglie

che non avevano figli, spesso ricorrevano a dei garzoni, che pagavano a cottimo. A volte nelle grandi famiglie, in grado di

produrre più di cento ceste in un giorno di lavoro, venivano svolte delle vere gare di velocità.Guardare i ragazzi e le ragazze,

inginocchiate a terra, per comporre il fondo, era spettacolare e disumano. Piroettavano attorno al fondo come tante

scimmiette e, come tante bertucce, avevano il culo dei pantaloncini tutto consumato. Questo tipo di lavoro provocava una

deformazione delle fragili ossa in fase di sviluppo, che spesso incideva sulla crescita. Parecchi erano i casi di scoliosi e di

callosità sul collo dei piedi, sulle ginocchia, nelle mani. Quest’ultime diventavano rudi, macchiate di nero e quasi deformi, a

causa dei tagli e del’utilizzo della mannaia che  di continuo si teneva stretta in mano e che provocava pure

l’angioneurosi. L’insieme della lavorazione coinvolgeva tutta la famiglia, per produrre un numero di ceste che economicamente

erano una miseria, rispetto al lavoro e ai sacrifici richiesti. Io ero ancora troppo piccolo, per essere direttamente messo in

produzione, anche se altri miei coetanei, in altre famiglie, erano già in grado di costruire il fondo della cesta e del coperchio.

Mamma e Papà volevano per noi figli l’istruzione innanzitutto; per questo finche hanno potuto, ci hanno tenuti fuori dal

mestiere. Uscito da scuola, tuttavia, raggiungevo papà. In fabbrica la lavorazione era assordante a causa del rumore delle

macchine che spaccavano in due il tronchetto di castagno. Vi era molto caldo a causa delle fornaci e del vapore acqueo

prodotto dalle grandi caldaie. Il legno di castagno, dal diametro che variava tra i quattro e i dieci centimetri, veniva segato in

diverse misure. Si evitavano sprechi e si eliminavano le impurità dei nodi dalle misure più importanti, soprattutto da quelle che

servivano a fasciare la cesta. Dopodiché  veniva bollito per ore nelle caldaie di rame lunghe due metri per uno e venti,

profonde un metro e cinquanta e poste una di fianco all’altra. Esse poggiavano su una base di mattoni refrattari, che lasciava il

fondo scoperto alle fornaci sottostanti.Le fornaci avevano un camino unico, comunicante con una ciminiera alta che

sovrastava la fabbrica.  Il fuoco sotto le caldaie veniva mantenuto sempre acceso, ed il materiale all’interno vi

stazionava in attesa di lavorazione. Il continuo bollire era necessario per mantenere il legno sempre caldo ed evitare che si

impregnasse d’acqua. In tal caso la lavorazione in sfoglia era pregiudicata, in quanto il castagno imbevuto, anziché sfogliarsi, si

sfilacciava. Per mantenere sempre accese le fornaci, si utilizzavano gli scarti del castagno e le cortecce. L’addetto alla

bollitura arrivava in fabbrica all’una di notte, per accendere i forni e far sì che il materiale fosse pronto e cotto per le sei del

mattino. Normalmente la giornata lavorativa in fabbrica si basava sulla trasformazione in legname del contenuto delle due

caldaie, riempite la sera prima e portate ad ebollizione. Solitamente questo avveniva in otto o nove ore di lavoro effettivo,

fermandosi due volte nell’arco della giornata, alle otto del mattino per fare colazione, alla mezza per il pranzo. La sosta per la

colazione era qualcosa di più che la semplice necessità di rifocillarsi.Fermate le macchine e la sega, ci si metteva seduti

all’esterno, (s’era bel tempo) sul piazzale adibito a deposito del legno da lavorare. In quella sosta v’era una

storia di costume e d’usanza, non era solo un diritto sindacalmente acquisito. Si consumava il cibo che di solito era formato

da pane caldo, tipico calabrese, imbottito a volte solo con un po’ d’olio d’oliva, altre  con olio e acciughe salate, altre

ancora, con peperoni  oppure con uova fritte, ed anche con specialità locali come: melanzane alla giardiniera,

pomidoro secchi o tonnetto sott’olio, oppure semplicemente con pomidoro freschi. Durante la sosta si evitava di parlare di

lavoro, si discuteva di tutto il resto: politica, calcio, donne, figli e famiglia, oppure si raccontavano barzellette e pettegolezzi

paesane. Quella mezz’ora era sacra, durante la sosta non veniva servito nessuno, anzi, se arrivava qualcuno, lo si invitava a

sedersi e a bere un bicchiere. Papà però era un`eccezione, spesso saltava colazione e pranzo, oppure mangiava mentre

metteva a punto una macchina, o affilava un coltello della stessa che non tagliava più. Il legname veniva tolto dalla caldaia,

cominciando dalla misure più piccole. Due esperti, con apposita mannaia, aprivano perfettamente a metà il tronchetto

bollente, togliendole anche la corteccia, che per la bollitura veniva via tutt’intera.Quando, dopo la scuola, andavo in

fabbrica, oppure quando portavo a papà la colazione ed il pranzo, mi fermavo a mondare i tronchetti (togliere la

corteccia), bruciacchiandomi le mani. Ero contento di farlo, mi sentivo utile e importante quando lo raccontavo ai miei

amici e compagni di scuola. Quel lavoro di mondare, lo facevano anche gli altri, che  attendevano di pesare il materiale

che utilizzavano a domicilio. In inverno, era anche un modo per scaldarsi le mani. Il legno, spaccato e mondato, subiva

ulteriori divisioni dalle macchine: prima attraverso una di sgrossatura, dopo in quella di rifinitura, sino a diventare una sfoglia

leggerissima, spessa un millimetro. Il legname cosi lavorato era pronto per essere assiemato e cucito, per fare le ceste ed

anche qualcos’altro. Papà e i suoi fratelli erano bravissimi nel fare altre cose oltre le ceste. A tempo perso, cioè la sera,

oppure nei giorni di festa, utilizzando le parti più pregiate del legname e colorandolo, costruiva ventagli, cestini per la frutta da

tavolo, gettacarte, rivestimenti di bottiglie e damigiane, grandi e piccole che fossero. Papà costruiva caratteristiche miniature,

che poi riempiva di dolciumi tipici e regalava nelle feste. Costruiva anche bauli per trasporti eccezionali e culle per neonati.

Queste sue capacità erano apprezzate da tutti e papà, con tutti, s’impegnava per accontentarli. In paese non vi era casa o

ufficio e studio, ove non vi fosse un oggetto artigianale costruito da papà o dalla sua famiglia.Il mestiere, svolto a livello

artigianale, con la  professionalità di papà, dava solo molta riconoscenza. L`artigianato, pur apprezzato, non veniva

pagato quanto meritava. Questo non solo riferito alla professionalità, anche al tempo impiegato. Il castagno nella lavorazione

è diverso dal vimini, dalla canna, dalla paglia e dal bambù; occorre professionalità e fantasia per renderlo anche bello.La 

costruzione della cesta, utilizzata per il trasporto ortofrutticolo, veniva svolta a domicilio, con lavoro a cottimo, contrattato

sindacalmente.Esso si basava sul peso: tanti chili di grezzo fornito, tante ceste. Coloro che riuscivano a costruirne più di

quanto stabilito: il surplus veniva pagato extra, per intero, come se il produttore, oltre al valore aggiunto, avesse fornito anche

la materia prima. Di solito con il surplus, s’arrotondavano le entrate economiche in casa. Il surplus era possibile se si sfruttava

bene il materiale, se veramente capaci, oppure a scapito della qualità del prodotto confezionato. Chi ne approfittava,

producendo male, di solito veniva rimproverato dal principale. Se la cosa perdurava, non gli veniva più concesso legname da

lavorare. Il surplus prodotto dalle famiglie faceva gola ad alcuni (trafficoni di contrabbando), che non erano

proprietari dei mezzi di produzione. Questi erano disposti a pagare più del padrone che forniva il materiale; essi non avevano a

  carico spese sociali per il mantenimento degli impianti e per i lavoratori a domicilio.A volte, erano gli stessi

principali a dare la caccia al surplus delle famiglie degli altri concorrenti specie a quello delle famiglie professionalmente

capaci. Questo serviva ad aggiustare la qualità del loro prodotto. Ogni principale marcava con una striscia colorata le ceste

della sua produzione, ognuno adoperava un colore diverso dall’altro. Il surplus era anonimo, senza  fascia, se qualche

famiglia la metteva, adoperava il colore del principale a cui vendeva. Questo però era un rischio che non veniva perdonato. Le

famiglie di solito preferivano “Il trafficone”, perché non volevano far sapere al proprio principale, quanto surplus erano in

grado di produrre. Il motivo, molto semplice, era dovuto al fatto che, in caso di rinnovo d’accordo sindacale, il trafficone non

partecipava alle trattative. Mentre gli impresari si  potevano mettere in discussione le precedenti percentuali 

concordate, tra  prodotto grezzo fornito e prodotto lavorato restituito. D’altronde gli impresari dovevano

garantirsi; s’impegnavano su diversi fronti: con i boscaioli,  comprando l’intero bosco; con i clienti sulle forniture e sulla

qualità; con le famiglie, a cui garantivano l’intera stagione.

 

 

 

 

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Post Author: Gianni Saffioti