L’infanzia a Bagnara di Pasquale Morabito

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Autobiografia di Pasquale Morabito

Capitolo I°

L’infanzia a Bagnara

            Il ricordo più remoto di Bagnara è legato alla casa di Via Medina, nel rione della valletta. Non ricordo esattamente quando siamo arrivati in paese. Quello che so è che mamma, a causa della guerra, aveva sfollato a  San Giorgio Morgeto, perché Bagnara spesso era bombardata dalle forze  alleate per via  della sua posizione strategica. San Giorgio era il paese d’origine della famiglia. Sul ceppo però, esistono altre ipotesi. Durante lo sfollamento, mamma mise al mondo i primi tre dei dieci figli (io sono il secondo).

La casa in Via Medina, posta al pianterreno, era composta di due grosse stanze e da un solaio. All’esterno, sull’arco della porta, un volto, costruito in cemento, la contrassegnava. Lo stanzone d’ingresso era adibito al  lavoro, a soggiorno e cucina; l’altra stanza posta dietro la prima, era utilizzata per dormire.

In quel periodo papà e mamma facevano ceste di castagno a domicilio, come tante famiglie in paese. Quattro o cinque segherie ed altrettante fabbriche per la lavorazione del castagno erano le principali fonti economiche del paese. Altre fonti erano la pesca (pesce spada in particolare) la viticoltura e l’agricoltura.

L’artigianato a quei tempi era poco sviluppato. Si limitava ad una famiglia che soffiava il vetro, ad alcuni costruttori di barche, a pochi di tini e botti. Le segherie e le fabbriche per la lavorazione del castagno erano le principali attività svolte a livello industriale. Esse coinvolgevano altri paesi e frazioni montani. Davano lavoro a boscaioli  e forestali, che curavano le ricche montagne di legname. Ai trasportatori, che lo trasportavano a valle e, una volta lavorato, lo portavano a destinazione. Al trasporto del materiale lavorato ci pensavano anche le FS che tutti i giorni, da Settembre a Giugno, caricavano un treno di ceste destinato in Sicilia,  Campania e località della Calabria.

All’epoca, pur non esistendo un porto a Bagnara, una o due volte l’anno arrivava un bastimento per caricare fiscoli di castagno, roghe di faggio ed altro legname destinato alla Palestina ed al Medio Oriente. La scenografia che si realizzava per l’occasione era bellissima: ricordava, in un certo senso, il carico di una nave merci del’800 con l’utilizzo degli schiavi.

Il materiale da caricare veniva portato sulla spiaggia in diversi modi: con i carri trainati dai buoi, con carretti spinti a mano, in testa, dalle donne bagnaresi. Dalla spiaggia veniva caricato sulle barche che facevano la spola con il bastimento.

Centinaia erano i curiosi che si godevano lo spettacolo. Molti ragazzi e giovanotti invece, ne approfittavano per fare i tuffi dal bastimento. Ricordo che vi era una gara tra chi si tuffava dal punto più alto, diversi erano quelli che lo facevano dalla cima dell’albero maestro.

Bagnara, per usare un luogo comune, è una ridente cittadella di undici mila abitanti divisa in tre parti: quella arroccata lungo la statale Aurelia che sale al monte S. Elia, quella bassa, formata da due grossi insediamenti comunemente chiamati il centro e il rione dei pescatori. La parte bassa è caratterizzata da una striscia di spiaggia che dai piedi del monte S.Elia, si distende verso Scilla. Bagnara viene quasi spinta dai suoi monti  verso il mare e in lontananza, verso il tramonto, si erge dall’acqua la sagoma dello Stromboli. I monti si affacciano a strapiombo sul mare, soprattutto a ponente. Essi sono coltivati a viti, con terrazzi costruiti geometricamente perfetti dai viticoltori.

Tra le uve pregiate prodotte, risalta fra tutte il famoso “Zibibbo”, che in questa striscia di “costa viola” cresce particolarmente più buono che altrove; tutto merito della esposizione dei terrazzi al caldo sole di mezzogiorno.

A quei tempi le qualità migliori del paese erano: la bellezza della spiaggia, i belvedere sui colli, la posizione panoramica, posta di fronte allo stretto.  Bellezze male sfruttate e mal governate. La sua posizione, il suo mare, la vicinanza con Reggio e Messina offrivano ed offrono molte possibilità e occasioni, che i bagnaresi e i suoi amministratori non hanno saputo cogliere in tempo.

Via Medina vide la mia fanciullezza. Tra i tanti, vi è un ricordo risalente al periodo dell’asilo: in aula dividevo il banco con una mia coetanea vicina di casa, i nostri genitori erano uniti da una forma di parentela indissolubile, chiamata “san Giovanni” (compari). Questo rispetto si allargava e coinvolgeva tutto il parentado.

L’episodio, che non dimenticherò mai, riguarda quella volta, che, sfuggito alla stretta sorveglianza della suora, mi inoltrai nei sotterranei dello stabile. Questi erano un vero labirinto di stanze e sottoscala, buie e tetre, cosi mi apparivano.

I corridoi e le stanze erano piene di casse, quadri e oggetti sacri. Fra le tante cose, due statue dei SS Pietro e Paolo di grandezza naturale, appartenenti alla chiesa vicina e accantonati perché vecchi e sostituiti con altri più belli.

La loro improvvisa apparizione, appena svoltato l’angolo, mi pietrificò. Il loro sguardo penetrante, vitreo e fisso su di me, sembrava un solenne rimprovero, perché colto in flagrante. Per un attimo infinito restai immobile, impaurito e incapace di sottrarmi a quello sguardo. A destra delle statue v’era un vecchio Cristo cui mancava la croce. Anche la sua espressione di dolore contribuì alla mia “Paralisi” di paura. All’improvviso, uno strano rumore, probabilmente un gatto che saltava sulle casse, mi destò da quel torpore, mettendomi le ali ai piedi. In men che non si dica risalii le scale, attraversai i corridoi ed ansimando andai a sedermi al mio posto, vicino alla mia “comarella”. Ad un certo punto, una puzza inequivocabile si sparse nell’aria. Un liquido marrone, che non era cioccolato, fuoriuscì dai miei pantaloncini sotto il grembiule, spargendosi sulla panca sino a macchiare il grembiulino bianco della mia amichetta di banco.

Lei si rese subito conto che una stranezza m’era accaduta. Prima che potesse dire una parola, la suora accortasi che qualcosa non andava, prontamente ci fece abbandonare l’aula e accompagnare a casa. Il tutto avvenne sotto le risate e lo scherno degli altri bambini. Essi pensavano, sbagliando, che tutte  e due ci eravamo “cagati” addosso. Quelle risate e la faccia infuriata e piangente della mia “comarella” mi  fecero arrossire per anni con lei e con quanti ricordavano l’episodio questo comunque non ruppe la nostra amicizia. Spesso giocavamo insieme ad altri, utilizzando come spazio la strada davanti casa.

Le strade, le baracche diroccate e abbandonate erano i nostri rifugi e spazi per giocare. Nei depositi del legname costruivamo i nostri angoli segreti dove portavamo gli oggetti  più strani: le bottigliette di gassosa con la biglia dentro, un cavallo di legno rotto, recuperato chissà dove, una bambola con quattro capelli e senza occhi e altre cose di questo genere.

Uno dei divertimenti che più ci affascinava consisteva nel fondere i pezzetti di piombo. Raffreddandosi in un recipiente d’acqua, dopo la fusione, il piombo assumeva forme strane e noi, con la fantasia, vedevamo le cose più disparate. Ogni tanto ne combinavamo qualcuna di troppo, che ci costava molto salata, come quella volta che, per divertimento, insieme a mia sorella Antonietta avevamo “catturato” una  gallina. La poveretta si faceva prendere da tutti, ma quel giorno  non ci limitammo alla semplice cattura ,come facevamo di solito, volemmo una sensazione nuova. L’idea ci venne da una vecchia bicicletta abbandonata, rovesciata con le ruote in su. In un lampo infilammo la testa della povera gallina tra i raggi della ruota e girando avanti e indietro, ne  provocammo la morte. Papà, non appena informato, con una verghella di castagno, ci segnò tutte le gambe. Quella era l’unica punizione possibile per dare soddisfazione alla parte lesa, che oltretutto era una “comare”. Altre punizioni, come i rimproveri o il salto della cena, sarebbero state  dichiarate una forma di debolezza nei confronti di figli considerati troppo vivaci e maleducati. Papà, da questo punto di vista, non voleva discussioni. Non prendeva lezioni da nessuno. Non accettava  intromissioni  sul metodo di educare i figli. Non voleva però che si sparlasse in giro. Quindi tutte le volte che qualcuno veniva a lamentarsi del comportamento dei figli, puntualmente noi (in quel periodo io) le buscavamo.

Questo succedeva pure quando ero io a subire un torto e tornavo a casa pesto o piangendo. Ad un certo punto però, papà  si rese conto che non poteva continuare così. Non poteva  correre dietro a mamme troppo impiccione, che per un nonnulla s’intromettevano in questioni di normali rapporti tra bambini. Cosi decise che di volta in volta, avrebbe valutato l`accaduto, distinguendo le cose serie dalle bambinate. Papà era consapevole che le percosse fisiche, a torto o a ragione, avrebbero fatto crescere dei figli sottomessi e “coglioni”.

Un altra volta con Antonietta ne combinammo un’altra da non dimenticare. A farne le spese erano di nuovo gli animali, si trattò di gatti. L’idea era quella di rendere diversi, in modo da poterli riconoscere, quattro simpatici gattini tutti bianchi. Consisteva nel dipingerli con i colori adoperati per le ceste. Detto e subito fatto: una rossa, una viola, una blu, l’altra lasciata com’era ,ma con una macchia viola sulla fronte. Bagnati a quel modo però sporcavano dappertutto, cosi  pensammo di asciugarli. L’idea e l’esecuzione furono immediate e tutte e quattro finirono dentro il sacco della segatura. Un martirio come quello fatto subire a quattro innocenti bestiole, la cui colpa era quella di essere tutti uguali, meritava una severa lezione. La punizione che avevamo previsto, puntualmente arrivò: prima da mamma, con la verghella sulle gambe, poi da papà con una stecca di castagno sul culo ed a letto senza cena.

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Post Author: Gianni Saffioti