Il mondo contadino bagnarese

Il mondo contadino bagnarese visto da Rocco Versace

tratto da un’intervista che ci ha rilasciato nell’agosto del 2011

di Gianni Saffioti

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Il mondo contadino bagnarese è un mondo antico faticosamente arrampicatosi fino ai giorni nostri nono stante le grandi insidie del territorio e le endemiche difficoltà sociali ed economiche che fino al dopoguerra avevano ancora il sapore del feudalesimo. La storia dei nostri contadini è la storia del territorio che circonda Bagnara, quindi povertà, stenti e tanta fatica per sopravvivere. Tutto questo ha portato allo sfruttamento del lavoratore fino al massimo consentito dallo stesso che dopo essersi indebitato, praticamente diventava servo e perché no, schiavo del proprio padrone. Dalla fine della prima guerra mondiale in poi le cose lentamente ebbero un cambiamento e poi una drammatica fine con l’abbandono delle terre, sia quelle coltivate a vigneti, che quelle dedite agli alberi di castagno.

Per approfondire questo argomento consiglio di leggere “ I Cavalieri dell’Aspromonte” di Alessandro Carati del 2004 Edizioni Marafioti”

La storia che oggi vogliamo raccontare esula da tutto ciò e ci riporta alla vita vissuta da un contadino per taantissimi anni in una delle zone più belle ed impervie del litorale tirrenico, la costiera.

Rocco Versace, nato il 17 aprile del 1931, dall’età di sette anni e fino al 1957 ha lavorato in quei territori e ne conosce a memoria ogni angolo. Nello scritto che segue, abbiamo riassunto il suo lunghissimo racconto tratto da un’ intervista che ci ha rilasciato nell’agosto del 2011 a Bagnara.

All’età di sette anni Rocco Versace ha cominciato a frequentare le “costiere” e per quello che poteva dava una mano a suo padre nella vigna. A quei tempi, nei giorni festivi e nei periodi che non si andava a scuola, egli, entusiasta di salire sulla barca, seguiva suo padre che assieme a tantissimi altri contadini al mattino presto a bordo delle palamatare venivano portati dal centro del paese alle varie zone della costiera dove passavano tuta la giornata a lavorare nelle vigne. Per la felicità di salire sulla barca egli passava la notte insonne.

Completate le scuole dell’obbligo il Versace continuò assiduamente a frequentare quei territori fino praticamente alla fine degli anni 50. I terreni dove lavorava erano gestiti entiteusi (godimento di diritti reali sulla proprietà altrui) per i quali pagava annualmente sia il censo al proprietario che la “funduaria”, ovvero le tasse fondarie che si pagavano presso l’esattoria comunale che per quella zona aveva sede a Seminara.   A quell’epoca tutti i proprietari in enfiteusi dei territori della costiera censiti erano circa 4800.  Alcuni avevano poco terreno, altri un pò di più, e in base alla zona comunale dove il terreno si trovava, il metodo di misura variava sensibilmente. Una “tumanata” di Seminara era di 2800 metri, mentre nel territorio bagnarese una “tumanata” valeva 10.000 metri. In sostanza i contadini erano proprietari delle piante e degli alberi, mentre il terreno era di proprietà degli Impiombato.

Ogni anno il 14 agosto, nel giorno della festa di Seminara si andava prima all’esattoria per pagare e subito dopo a comprare i semi per le cipolle da seminare nell’ orto, “u giardinu”, cosi facevano “na via e du servizzi”.

Il nonno del sig. Rocco Versace ha passato una vita nella costiera. Egli era li, attivo tutta la settimana, giorno e notte, tornava a casa il sabato sera, la domenica mattina era presente alla chiesa del Carmine per ascoltare la messa e poi il lunedì mattina tornava nuovamente sui terreni. Cucinava e mangiava in loco diciamo come oggi si fa in campeggio ma con molti confort in meno. Dormiva dentro la baracca di fortuna, dove si posavano gli attrezzi su di un giaciglio fatto di legname. Raccolta l’acqua, che era l’elemento più importante da procurarsi in quelle zone, la usava soprattutto per cuocere “a Fasola”. I vantaggi della sua presenza, anche quando non serviva alle culture, non erano tanto sulla parte lavorativa ma su quella della sicurezza del terreno, perché “u craparu” essendo la vigna vigilata, girava al largo e i suoi animali non potevano fare danni.

Tempi fatti di sacrifici enormi, di tanto lavoro, pasti frugali e riposo notturno di quattro o cinque ore non proprio confortante. Al paragone con l’oggi tutto quel lavoro e quei sacrifici sono impensabili e sicuramente improponibili.

 Il Lavoro nelle costiere prevedeva l’impegno costante per tutto l’anno, e cosi quando non si poteva andare per mare si andava a piedi e si dimorava  fino a quando le scorte di viveri bastavano, se il lavoro prevedeva più tempo di quello calcolato e i viveri finivano, si andava a Palmi vicino al campo sportivo a comprare l’indispensabile. Gli elementi di base come sale e olio, si portavano con la bella stagione dentro le bottiglie, e si mettevamo sottoterra dentro una buca foderata di lamiera, locata in un posto che sapevano solo i contadini. L’acqua era raccolta in vari siti da dove sgorgava, in alcuni posti si creava una “gurna” ovvero una piccola pozzanghera leggermente profonda che raccoglieva l’acqua che gocciolava dalla montagna, in altri punti veniva fuori dalla roccia e poi ancora dentro la galleria del treno dove sapeva di fumo ed aveva più gusto. Sul trecciolino c’era uno spacco nella roccia, dove veniva fuori l’acqua freschissima, ma era troppo lontano per andare a riempire “ a bumbula” che era un recipiente di terracotta tipo vaso che finiva col collo stretto tipo bottiglia con un piccolo foro sotto il collo per far zampillare l’acqua quando bisognava usarla per bere senza appoggiare le labbra al muso del collo.

 Dentro la misera baracca non si poteva lasciare nulla, perché quando nel periodo invernale da ottobre a febbraio in quei posti arrivavano i pastori (i pecurari), per far pascolare le capre e le pecore, se la baracca era chiusa loro la forzavamo per entrare per ripararsi, cosi i contadini preferivano lasciarla sempre aperta e con praticamente nulla dentro. Spesso per ozio e per divertirsi i pastori tagliavano 20  30 cm dei paletti delle viti per lanciarle contro le piante dei fichi d’india. Gli animali che per passare da una “rasola” all’altra saltavano le “macere” spesso rompevano le viti oramai morte, facevano rotolare i sassi con il conseguente franamento del terreno. L’erba delle vigne, oltre ad essere prelibatezza invernale per il pascolo, era pure falciata e raccolta dalle contadine del luogo che la davano da mangiare agli animali delle loro stalle.  Questa gente, che era principalmente di Barrittieri o di Ceramida e quindi vicinissimi ai terreni in questione, bisognava trattarla con garbo altrimenti faceva dispetti e danni ingenti alle vigne. Cosi i pali per legare le viti si portavano d’estate, quando questa gente spostava le pecore a pascolare più a nord.

La stagione lavorativa cominciava a novembre quando si piantavano le barbatelle, ovvero bisognava scavare delle fosse e piantarci  le viti selvagge, prima di Natale si faceva la potatura e la legatura, poi il lavoro più grosso era tra fine aprile e maggio quando si cominciava a zappare la terra attorno alle viti, in questo periodo si dormiva nelle terre per non sprecare il tempo nel viaggio. Si riprendeva poi quando bisognava “ ‘nzurfarari” dare lo zolfo alle piante, lavorazione che si faceva più volte in periodi diversi. La vite della costiera a causa del vento era destinata a una costante cura e continuo legamento delle foglie in modo da far crescere bene la pianta e l’uva, che poi veniva vendemmiata dai primi di settembre ai primi di ottobre. D’inverno si andava a piedi dalle  gallerie ferroviarie, oggi cosa assolutamente impossibile, mentre durante la bella stagione si andava con la barca che praticamente era come un autobus dove ogni persona pagava una quota come biglietto.

Le tipologie di viti più coltivate nella costiera erano per i vini bianchi principalmente ‘Nsolia e Malvasia, ma le coltivazioni più grandi erano di uva nera come il Nerello e i “Mimmi i vacca nira”, ma la qualità più coltivata in assoluto era quella Prenestina, un tipo di una nera.

Il mestiere si tramandava da generazione in generazione ed a ogni età c’era la specializzazione del lavoro, una delle particolarità tecniche più qualitative era quella della “ ‘nsitatura” ovvero l’innesto della pianta.

Sopra avevamo detto che a novembre si piantavano le viti selvagge, quando queste poi crescendo arrivavano a certe dimensioni, diciamo che il fusto doveva essere poco più grosso di una sigaretta,         allora su quella base si innestava la pianta della qualità che si voleva far crescere. Le tecniche erano due, a taglio inglese o a spacco inglese.

Spacco inglese: si tagliava la pianta nella parte liscia tra due nodi gli ultimi 4 centimetri si legavano mente la parte di sopra veniva tagliata di precisione con un coltello al centro, in questa parte si fissavano una o due piantine “broschi  domiti” in base alla grossezza del fusto.

Taglio inglese: si tagliava in lungo il fusto e poi misurando la grossezza si incastrava la piantina in modo che venisse precisa alla sezione e poi si legava e si proteggeva dalle intemperie e dagli animali sotterrando il tutto, cosi l’umidità dava anche forza alla ferita di rimarginarsi più presto.

La fase più importante era quando all’inizio di maggio la pianta cominciava a crescere e quindi bisognava aiutare la parte innestata a svilupparsi bene eliminando tutti i germogli “iettaturi” della pianta selvaggia. Questo lavoro molto importante durava quasi tutto il mese, poi si era sicuri che la pianta sarebbe cresciuta per il meglio. A volte capitava che gli innesti non venissero ben sistemati, bastava all’occorrenza fissare dei legni con un poco di terra per dare un poco di umidità e la vite cresceva lo stesso. Gli innesti dovevano essere curati come i bambini nelle fasce. La fase dell’innesto nella zona della costiera comprendeva un periodo molto ampio che andava dall’otto dicembre ai primi d’aprile. Ad aprile si dava la prima passata di zolfo e poi dopo il lavoro di maggio bisognava stare attenti  alle varie malattie ed a eliminare le foglie che toccavano l’uva “spullegrari”, lasciando quelle più esterne che servono da protezione contro il forte sole e contro le forti intemperie. Ad occhio si vedeva crescere l’uva e se alle prime avvisaglie di malattia non si interveniva subito si correva il rischio di contaminare tutta la pianta. Nelle zone della costiera ci sono delle parti più secche, dove bastava una passata di zolfo e dove si preferiva la coltivazione di uva bianca, e delle zone molto più frequenti di umido come nella zona lato Mancuso, in questi casi l’attenzione per le malattie recate dell’umidità era più accentuata e lo zolfo veniva dato almeno tre volte in casi di stagione normale.   La malattia portata dall’umidità visivamente è simile alla muffa, come una barba grigia che si espande da un chicco all’altro e poi a tutta la pianta, per questo l’arte di eliminare le foglie vicine al grappolo o che toccano l’uva  è fondamentale sia per evitare che l’umidità della foglia intacchi il grappolo e si per dare anche la giusta aereazione alla pianta. Generalmente la bontà dell’uva è data dalla posizione della pianta, nelle colline bagnaresi e non solo nella costiera l’uva migliore si matura nella parte destra della montagna quella più soleggiata, praticamente quella che guarda l’Africa. In queste zone il raccolto anche se inferiore è di qualità nettamente superiore a quello delle zone più pianeggianti come la zona del cimitero, e la differenza si sente anche dal grado alcolico 13° contro i 9 – 10° .

L’uva bianca delle costiere era pochissima e la ‘Nsolia era quella più coltivata perché maturava prima e giustamente il guadagno entrava prima, mentre lo Zibibbo era senz’altro più stimato per il suo sapore. Tutta l‘uva bianca è più “zuccherina” dell’uva nera e per questo il vino bianco si matura molto tempo dopo quello nero. Dunque maturata l’uva si portava nei “parmenti” cittadini che si prenotavano per tempo per uno o più giorni in base alla quantità di uva che si produceva. Si doveva prenotare anche il tipo di imbarcazione adatta alla quantità di uva raccolta, per esempio per 60 – 70 “cofina i recina” occorreva un “buzzettu”, fino a 35 – 37 “cofina” invece bastava “n’untri”, spesso i piccoli proprietari che facevano circa 20 “cofina” a testa dividevano la barca e dimezzavano le spese di trasporto. L’uva era lavorata nei palmenti dagli stessi contadini e poi si portava nei depositi e li si lasciava maturare fino all’otto di dicembre. Da quella data in poi si cominciava a vendere il vino.

Ci narra il sig. Rocco Versace

“Una volta ricordo che per le intemperie del mare ho dovuto lasciare per una settimana tutto il raccolto, oramai sistemato dentro le ceste (i cofina) alle costiere, ed ogni sera all’imbrunire andavo a verificare il numero dei (cofina) per controllare se qualcuno non andasse a rubarli. Partivo da casa con un po’ di pane e una bottiglietta di acqua e tornavo in dietro verso le 22.00. Alle 4 del mattino ero già pronto per tornare e verificare la situazione.

Al quel tempo ero giovane è seguivo i discorsi dei contadini più vecchi, ma considerando il rispetto che avevo per mio padre non mi azzardavo a dire nulla in base alle date che lui stabiliva per la vendemmia. Capitò che per alcuni anni consecutivi la pioggia arrivò giusta con la vendemmia in quanto la data era sul punto di luna, cosi mi feci coraggio e proposi a mio padre di spostare la data prefissata e di farla due giorni prima, da qual giorno in poi mio padre mi lasciò decidere le date e le vendemmie furono tutte fatte con il bel tempo, anche quelle lungo le vigne dello Sfalassà di proprietà di mia suocera. Anche qui un anno appena finito di portare 57 (cofina) al palmento arrivò il maltempo che ingrosso il torrente portandosi via un pezzo di strada. Ho sempre preferito vendemmiare lontano dai punti di luna perché è proprio in quel periodo che il tempo cambia e più creare problemi alla vendemmia.  Se al cambio di luna il tempo cambia in meglio, il buon tempo può durare anche 30 giorni.”

Non esisteva un criterio ben preciso di vendita del vino ed ogni produttore lo faceva in base alle sue possibilità. Alcuni lo vendevano in proprio, altri lo davano alle cantine alle quali dovevano pagare l’affitto della botte e poi una percentuale in base al “litraggio” ovvero i litri di vino venduti. La botte aveva bisogno ogni anno della manutenzione e della pulitura che era effettuata dal “mastro uttaro” che naturalmente bisognava pagare. Chi era fortunato ad avere un magazzino che poteva contenere le botti, cercava di vendere il vino per conto suo senza passare per le cantine. Molto spesso vendeva intere botti alle cantine stesse che erano dislocate in tutto il territorio del paese sia al centro che nei rioni periferici. Tra le ultime rimaste fino agli anni settanta si ricordano quelle dei Parisi, Velardo, Mignoli e quelle della “Svizzira” che è stata l’ultima a chiudere.

Oltre all’uva le zone della costiera producevano anche frutta di ottima qualità, fichi d’india naturalmente visto l’habitat ideale, poi pere e pesche.

Raramente in quelle zone  ci sono stati litigi tra i contadini, ogni tanto veniva fuori qualche discussione per questioni di limiti territoriali tra una vigna e l’altra ma per questioni di centimetri. I contadini con più buon senso riuscivano sempre a mettere pace tra i due o più contendenti. Solo una volta è capitato un episodio spiacevole a proposito di una lite ma è stato un caso isolato, punito dalla legge, che non si è più ripetuto.

Nel 1957 il proprietario dei terreni sentendo forte odore di affari liquidò tutti i contadini per riprendersi i terreni, al sig. Rocco Versace toccò circa un milione di vecchie lire che diventarono 700 mila lire a causa di ben 8 passaggi di successione dal primo avo che aveva fatto il contrato. Per la cronaca quell’affare non fu mai fatto e l’Aga Kan e i suoi soci che volevano comprare quelle zone, cambiarono rotta e continuarono a cementificare la Sardegna come avevano già cominciato a fere circa 10 anni prima risparmiando cosi il pezzo più pregiato della costa viola dalla cementificazione.

 

Post Author: Gianni Saffioti