A Bagnara ieri, articolo di Silvestro Prestifilippo 1949

<>

Bagnara:  ribalta eterna sulla quale è perennemente di scena l’universo; sintesi prodigiosa dell’umano e del divino in una feb­brile sinfonia di canto e di delirio. Terra aspra, terra amara, arbusti contorti di vigneti, aggrovigliati di mirto e di lentischio, terrazze di sudore umano che segmentano la montagna solenne, messaggio di profumi che dalle vette sulle quali l’erto silenzio si nasconde e s’appollaia, vola al brivido delle schiume che ricamano il respiro anelo della sabbia parlando linguaggi or di sole or di abisso. Ansare di ombre sui dorsi aspri dei contrafforti che gettano echi opachi sul mare, come di risonanze misteriose sprigionate dai meandri delle grotte faunesche e dai ricami sirenidi delle stalagmiti. Palpito di palmizi che pettinano le brezze, murmuri di venti che fanno all’amore con gli uccelli. Dalla  “marinella ,, (1) l’anfiteatro chiazzato di verde e di roccia, cresce entro l’Aspromonte ed a­bbraccia una giunonica solitudine incatenata coi capelli nel cielo e le membra nel mare or tersa in un immacolato sorriso di luce, or pallida di malinconia, or corrucciata di bufera. A sinistra lo stretto di Sicilia, come una bocca umana aperta ad inebriarsi di azzurro; qua e là sui divi distesi gruppi di case come pugni chiusi di bambino in un sovrumano sogno di angeli. E profumo di selva aspro come il delirio degli incubi; e profumo di alga, salso come il respiro delle vele e delle gomene; e profumo di fiori dolce e lento come un lungo sonno di voluttà dormito da un adolescente.

O poesia dei bagliori e delle carezze brividescenti sul mare, mentre l’onda lieve sbava le conchiglie e vellica i muschi! Oasi di turchino e sciabolate vermiglie come per un improvviso scivo­lare di fuoco sul fremito sussultante dell’acqua, malia distesa di canto senza parole in questa mistica sinfonia di ninfe e di cheru­bini! Altrove, altrove, silfidi ed elfinne composero il serto di Chateaubriand; altrove, altrove, il remeggio lieve dei cigni appro­dava canti d’amore e di sangue alle conquiste del Graal; altrove i delfini commossi dal lamento di Orfeo significavano sulla tra­gedia l’eternità del poeta; qui Ulisse l’anima latina incatenata, soffrì la febbre delle sirene, qui Omero veggente, sprigionò la novella leggenda d’un Prometeo latino che alla natura strappa l’incanto del melos come un più fulgido urlo di fuoco e d’amore!

Era un giornata stanca quella di ieri sul ” Castello Emmarita

una giornata di convalescenza leggera respirata sui fiori di man­dorlo e sul tepore dei vecchi nidi che attendono le vecchie ron­dini. Convalescenza dell’aria, disteso torpore di nebbie sopra l’Aspromonte, malinconia di silenzi proiettate sull’opale di lonta-nanze tranquille.

Sull’immane balaustra del mare, un incorrotto palpito di blandule ali vagabonde.

Nei meandri delle gallerie, dei corridoi che immettono al parco, presenze innumerevoli di secoli sulla fiaba lontana del milleottan­tacinque, Re del buon tempo, castellane, paggetti sottili, canzoni di guerra e d’amore, bagaglio inverosimile di tradizioni immortali. Vaghe presenze che l’anima evoca nel tempo.

Il castello merlato, in quella giornata stanca, appariva in tutta la sua magia di leggenda come il testimone millenario di quella storia e di quella poesia. Esso ama il sole incandescente, il tri­pudio delle luci, l’abbacinio dei bagliori, ma forse ama di più queste giornate dolcissime fatte di sole malato e di pénombre, una musica muta alla quale l’anima dona tutte le sue preghiere e tutte le sue canzoni.

Più chè il meriggio arso senza controluci, ama io credo i crepuscòli, quando i contrafforti dell’ Aspromonte si popolano di fantasmi, e sul mare fiorisce l’iridescenza delle lampàre, quando l’uomo anch’esso stanco di storia e ,di vita vissuta, ritorna per un momento a credere ai suoi sogni ~ a conversare con tutte le sue Ombre.

Così iersera, guardando in alto, verso le vette, vedevo ripo­sare gli sparvieri e le colombe e in basso vedevo le palpebre del silenzio posarsi sulle palpebre dei bambini, vedevo sul mare che respira la sua musica eterna, piangere; d’un pianto muto, le vele ammainate e i capelli me4usèi delle sirene, vedevo abbassarsi le stelle, ad una ad una, sul sonno degli uomini come piccole la­crime votive accese dalla tristezza.

Post Author: Gianni Saffioti